lunedì 24 dicembre 2012
domenica 23 dicembre 2012
Tempo di regali: sul valore psicologico del dono e del "donarsi"
Quello
del regalo è uno dei gesti più
antichi della tradizione dell’uomo ed è carico di significato; è un’usanza che
esiste da sempre e, qualunque sia l’occasione per la quale vi si ricorre, è
molto più che una prassi tradizionale o l’adempimento a un dovere legato a una
circostanza particolare. Regalare
qualcosa a qualcuno è un gesto relazionale che mostra un certo impatto emotivo:
con l’azione del dono inviamo un
messaggio a colui che lo riceve e sveliamo
una parte di noi stessi che si manifesta nella scelta di quel determinato
regalo per quella specifica persona; in questo risiede anche il valore più
strettamente psicologico del “donarsi”,
ossia lasciarsi andare all’altro, mostrare sé stessi, tanto una propria idea
quanto un’emozione.
Il regalo, in questo senso originale ed autentico, diviene quindi
un atto creativo, costruttivo ed intimo.
Nell’attuale società occidentale, purtroppo, il dono ha perso questo valore originario
assumendo un aspetto più superficiale e consumistico. Per esempio spesso si
sceglie un regalo non in base al significato dell’avvenimento da festeggiare ma
in base alla moda e alla pubblicità del
momento. La folle corsa nei negozi, la ricerca smodata e spesso obbligata di
chissà quale oggetto, l’acquisto di un regalo tanto per farlo ma senza
individuarne un senso per sé o per l’altro sono comportamenti che tolgono
valore al gesto originario.
Questa confusione sul senso del
gesto deriva però anche da una confusione
di termini; si può differenziare infatti il significato della parola “regalo” da quello del termine “dono”.
La parola Regalare ad esempio deriva da “regalia”
che erano i diritti spettanti al re di cui egli poteva fare concessione ai suoi
sottoposti per ricompensa di altri servigi. Insomma la parola regalo sembra
riportarci ad un significato molto sociale dello scambio dove cioè c’è qualcuno che fa qualche cosa in cambio di
altri interessi o per farsi vedere, per mettersi in mostra. Lo vediamo e lo
sappiamo che molti regali sono fatti con un preciso significato, una attesa di
scambio.
Noi usiamo, però, anche un’altra
parola come sinonimo di questa, soprattutto a Natale, ed è la parola dono. L’origine di questa parola è
completamente diversa essa infatti deriva proprio dal verbo dare, ed indica “ciò che si da senza attesa di ricompensa”.
Il dono implica insomma la gratuità del
dare, ed il piacere di dimostrare, con il dono, l’affetto ed il significato
che quella persona o quella relazione ha per noi.
In un significato più profondo il
dono ci mette “di fronte” alla
persona a cui viene fatto e ci fa confrontare con lei; quando il dono diventa “dono di sé”, magari in una relazione
amorosa o di amicizia, permette di capire quanto riusciamo ad impegnarci in
quel rapporto, quanto riusciamo a dare e quanto a “prendere”….oppure quanto ci “tratteniamo.
In base a questa lettura donare è anche
un rischio, rappresent6a un modo di mettersi in discussione, ci costringe a
confrontarci con la risposta dell’altro che sia essa positiva o negativa (per
esempio chiedere alla persona che ci piace di iniziare un rapporto d’amore, e
quindi “fargli dono” del nostro sentimento, comprende in sé il rischio di
venire rifiutati). Il dono allora è caratterizzato da una natura ambivalente.
Nel risalire alle origini del motivo dell'ambivalenza del dono è
significativo analizzare il termine; dôron-dôlos, dono-inganno,
come il duplice significato della parola gift: dono da una parte e veleno
dall'altra.
L'originalità di questo tema rinvia per esempio alla tradizione
greca. Da Omero ad Esiodo, da Eschilo a Platone dono è essenzialmente inganno.
Ciò concerne non uno specifico dono, ma ogni
dono; secondo il mito di Pandora («ricca di ogni dono«) il famoso Vaso di
Pandora è un dono agli uomini da parte degli Dei ma contiene anche tutti i mali
che si diffondono per il mondo intero. Ma non bisogna dimenticare che al suo
interno c’è anche la Speranza ; il dono
quindi porta anche il male (il rischio della sofferenza di donarsi agli altri)
ma nello stesso tempo rappresenta la possibilità di proteggersene.
In altri termini “donarsi”
senza avarizia agli altri può far male ma nello stesso tempo può rappresentare
anche la massima felicità (basti tornare all’esempio di cui sopra nel caso
che la persona che ci attrae accetta di stabilire un rapporto con noi).
Oggi rischiare in questo modo le proprie emozioni tende a fare
paura. La tendenza al controllo che
ci assale sempre più spesso impedisce di entrare in rapporto profondo con
gli altri ma anche con lo scorrere della
vita in generale; tendiamo quindi a trattenere
quello che proviamo oppure a metterlo in gioco solo quando ci sentiamo
abbastanza sicuri, quando abbiamo il controllo sugli eventi, secondo una
modalità dai forti tratti ossessivi;
in questo senso il cosiddetto “regalo di
consumo”, quello legato al concetto di “regalia” non è altro che una difesa
dal donarsi autentico, una difesa dettata dalla paura dell’altro.
Ma perché si evita di donarsi, ossia si evita il dono autentico,
spontaneo, libero? Forse perché così facendo non solo non si rischia se stessi,
ma anche, e soprattutto, così facendo si
tengono lontano gli altri dalla propria vita, impedendogli di portare
scompiglio con la loro novità. Il
dono infatti è cambiamento, è
sviluppo, è creazione di una situazione diversa; soprattutto è incontro e relazione.
Il dono quindi va anche accettato e questo comporta una specie di
“scelta di vita”, come dice Risè un “essere per il dono”, essere capaci di
esprimersi liberamente per quello che si è, di rischiare i propri sentimenti e,
tra l’altro, sentirsi di poter rifiutare quelli altrui; questo tipo di
comportamento comporta un “avvicinamento”
agli altri e se tutto va bene sarà
amicizia o amore; altrimenti, forse, conflitto e sofferenza. Ma solo rischiando la disperazione si può
ottenere la felicità.
In conclusione nell’esperienza del dono, e del donarsi, si esprime
una parte decisiva della vita umana, che è quella che riguarda gli affetti e la
ricerca del senso della vita, una ricerca che va oltre gli angusti confini del
nostro Ego per avventurarsi nel mondo sconosciuto della relazione autentica con il mondo.
domenica 9 dicembre 2012
L'Albero di Natale come simbolo di crescita personale
E così si avvicina un nuovo Natale, una festa che
per ognuno di noi costituisce un momento importante per la sua atmosfera
speciale e per gli aspetti affettivi ed emotivi che vi sono associati.
Due sono gli ambiti di vita ai quali questi aspetti
si intrecciano, uno è quello sociale e l’altro quello individuale.
Al primo appartiene la “celebrazione” di questa
festività, che coinvolge le famiglie nella loro interezza, le cene ed i pranzi,
le grandi abbuffate, come anche la celebrazione fra amici (merito anche delle
ferie) alle partite a carte o tombola o altri giochi da fare in compagnia. A
questo primo ambito appartiene però anche la forte connotazione “commerciale”
del Natale, quella fatta di panettoni, settimane bianche, luci splendenti e
regali più o meno costosi ed a questo livello si inseriscono anche quelli che
sono gli elementi “nevrotici” di questo periodo. In effetti è proprio “dentro”
questo aspetto del Natale che troviamo lo “stress da regalo” ma anche la
sofferenza psicologica; come sempre i dati confermano che in questo periodo
aumentano ansia e depressione e che queste a volte sono legate all’”obbligo” di
vivere bene e felicemente queste festività anche se ciò non corrisponde allo
stato d’animo; e da qui ecco che si ripropongono conflitti familiari che non
possono essere espressi (pena sensi di colpa verso gli altri componenti della
famiglia), ecco che ci si sente inferiori perché non si hanno abbastanza soldi
per i regali o per i festeggiamenti e così via….
Quello che si può pensare è che queste difficoltà
appartengano comunque alla vita quotidiana e non possono essere eliminate come
il “buonismo” natalizio vorrebbe; ma allora, visto che le nevrosi “festive”
sono a loro modo “naturali” dove risiede l’errore? Perché ci si sta male il
doppio?
Forse perché i due ambiti di cui sopra sono troppo
divisi fra di loro, perché non bisogna dimenticare che esiste anche l’aspetto
“individuale” del Natale, quello che simboleggia la rinascita di una luce dentro
di sé (rappresentata in particolare dal Presepe), il motivo del nome stesso di questa festa, “Dies natalis Solis Invictus”
ossia il giorno della nascita del sole vittorioso, la rinascita della luce
nuova, appunto; e nel nostro caso una luce che appartiene a se stessi soltanto.
Natale quindi non è solo una festa da passare
insieme ma anche un momento che rappresenta un cambiamento “dentro” l’individuo
stesso e da vivere solo per se stessi.
Per esempio Jung ci dice che l’Albero di Natale è
simbolo del “Processo di Individuazione”, un processo di crescita personale che
riguarda il proprio sé, e non il clima esterno, le relazioni affettive o le
dinamiche sociali.
Riguardo all’Albero di Natale diceva Santa Teresa
d’Avila: “…l’albero della vita mi è rifugio, nel pericolo esso mi
protegge…l’albero è la scala di Giacobbe in cui gli angeli salgono e scendono,
e alla sommità della quale risiede il Signore..” oppure ancora il Beato Filippo
Luigi Casati: “…l’albero della nascita divina si eleva verso il centro del
cielo e della terra…..fissato dai chiodi invisibili dello spirito per non
vacillare nel suo avvicinamento al Divino.”
Quindi l’Albero di Natale è simbolo di un percorso
individuale che riguarda essenzialmente se stessi e che non dipende dalle
relazioni con gli altri perché basta a se stesso, perché rappresenta una
rinascita personale ed indipendente che si eleva sopra la solitudine interiore
ed alza lo sguardo a cercare il proprio sole nuovo (oppure la stella cometa).
Ecco cosa dice Jung in proposito in una intervista
del ’57:
“…l’albero decorato ed illuminato, si ritrova anche
indipendentemente dalla natività di Cristo e anzi in contesti non cristiami.
Per esempio nell’alchimia…….il significato dei globi lucenti che appendiamo
all’albero di Natale non sono altro che i corpi celesti, il sole, la luna, le
stelle; l’albero di Natale è l’albero Cosmico. Ma, come mostra chiaramente il
simbolismo alchemico, è anche un simbolo della trasformazione, un simbolo del
processo di autorealizzazione. Secondo talune fonti… l’adepto si arrampica
sull’albero: un motivo sciamanico antichissimo. Lo sciamano, in stato estatico,
sale sull’albero magico per raggiungere il mondo superiore, dove troverà il suo
vero essere. Arrampicandosi sull’albero magico, che è al tempo stesso l’albero
della conoscenza, egli si impossessa della propria personalità spirituale. Allo
sguardo dello psicologo, il simbolismo sciamanico ed alchemico è la
rappresentazione in forma proiettiva del processo di individuazione. Come
questo poggi su base archetipica è dimostrato dal fatto che i pazienti del
tutto privi di nozioni di mitologia e di
folklore producono spontaneamente immagini incredibilmente simili al simbolismo
dell’albero storicamente attestato.”
E conclude dicendo che “l’albero di Natale è una di
quelle antiche usanze che nutrono l’anima, che nutrono l’uomo interiore.”
Quindi è importante capire che il Natale oltre a
rappresentare l’amore che circola in funzione della buona relazione con gli
altri simbolizza anche il momento della buona relazione con se stessi. Capendo
questo si diventa più forti di fronte all’irruzione di ansia e tristezza
natalizie che entrano meno in contrasto con le aspettative di gioia che il
Natale produce.
In sintesi, si può essere “anche” in compagnia di
se stessi senza sentirsi troppo soli ed i problemi di cui si parlava sopra
possono essere affrontati con maggiore forza. Allora l’albero diventa la
“scala” per raggiungere un nuovo livello di consapevolezza, un nuovo senso che
sia innanzitutto un nuovo “senso di sé” e così, con nuove energie, possiamo
davvero donare qualcosa agli altri e vivere con loro la gioia del Natale.
domenica 2 dicembre 2012
Siamo ancora capaci di "perderci"? Riflessioni sul tempo "perso"
Una non troppo vecchia pubblicità di automobili chiedeva
al telespettatore se fosse ancora capace di “perdersi”, in effetti al giorno d’oggi questa domanda appare
tutt’altro che banale.
La nostra si è trasformata in una cultura della fretta, corriamo sempre,
per andare al lavoro, per tornare a casa, per accompagnare i figli da qualche
parte….corriamo anche quando dobbiamo farci una vacanza “rilassante”, da un
monumento all’altro, da un locale all’altro, durante il week-end facciamo la “movida” (termine sicuramente
emblematico).
Ma tutto questo movimento non corrisponde a sua
volta ad un “perdersi”?
Dipende da cosa si intende con questo termine. Se
perdersi equivale ad essere disorientati
nella vita allora, si, sicuramente ci perdiamo spesso a fare cose la cui
reale necessità appare dubbia. Ma se perdersi equivalesse, al contrario, ad un lasciarsi andare a se stessi, ad
aspettare che si creino delle esigenze reali, fossero esse concrete o “dell’anima”, allora di questo oggi
siamo meno capaci che mai.
È il famoso contrasto
tra mondo esterno e mondo interno; equivale al chiedersi se le nostre
azioni siano dettate da motivazioni personali o da esigenze esterne a noi,
ossia dall’influsso sociale.
A ben guardare il nostro essere persi nel mondo
corrisponde spesso ad un tentativo di riempire
i “buchi” della vita; fino a che corriamo dietro alle centomila cose da
fare non abbiamo il tempo di pensare a noi stessi, non abbiamo tempo di “prenderci il tempo”; ma basta un fine
settimana durante il quale non ci siamo organizzati a fare qualcosa di
specifico (fosse solo seguire il calcio) che ci sentiamo veramente “persi”, non
sappiamo cosa fare, ci annoiamo.
In questo senso il termine “prendersi il tempo” è
molto significativo, indica una posizione
“attiva” nei suoi confronti.
Cercare di “riempirlo”
è un modo come un altro per significare che ne abbiamo paura e che quindi ci
limitiamo a “subirlo”, in sintesi
assumiamo nei suoi confronti una posizione passiva, finiamo per esserne
determinati, facciamo le cose per evitare di confrontarci con i tempi morti.
Al contrario allora prendersi il tempo corrisponderebbe ad un atteggiamento attivo, creativo; per esempio accettare la noia ed
aspettare che si trasformi in qualcosa oppure in niente, in questo modo i “tempi morti” vengono accettati e ci si
confronta con loro alla pari, il tempo magari trascorre “vuoto” ma non provoca
sensazioni di disagio.
Winnicot, un famoso psicanalista del passato, affermava
che il contrario di esistere non è
“non esistere” ma bensì “reagire”;
se ogni volta che facciamo qualcosa è solo come reazione a qualcos’altro vuol
dire che non esistiamo per noi stessi
ma che facciamo le cose in reazione a conflitti (con il mondo o con noi stessi)
con i quali combattiamo le nostre personali guerre; questo significa che determiniamo quello che siamo
esclusivamente in confronto con qualcosa di altro, dimenticando di guardare
ciò che siamo davvero nel nostro profondo. È ovvio che entrambi gli
atteggiamenti sono necessari, ma non dovrebbero mai essere sbilanciati troppo a
lungo.
Il nostro perderci oggi corrisponde al continuo cercare alternative per riempire
momenti vuoti, noi non ci perdiamo
mai realmente, lasciandoci andare a quello che capita, noi in realtà abbiamo
già molte alternative da attivare; la noia non fa in tempo ad arrivare che già
sappiamo cosa fare, come “reagire”
ad essa.
Da un punto di vista psicopatologico finiamo per
soffrire di continua ansia anticipatoria,
ossia la paura per quello che succederà, al cui fondo c’è sempre la paura del vuoto. Oggi la nostra è
definita una società ansiosa ma a ben guardare forse bisognerebbe chiedersi se
non sia una società depressa.
L’ansia infatti va spesso a “braccetto” con la
depressione, è lo “psicofarmaco” più utile (ed utilizzato) contro il senso di
vuoto, ossia la depressione. Questo significa che abbiamo paura di noi stessi e di ciò
che ci alberga dentro, e che non vogliamo vederlo; la depressione, almeno nella sua forma reattiva, secondo qualcuno può
essere una reazione a questa poca attenzione a sé, un tentativo estremo che la nostra psiche fa per farci confrontare con i nostri aspetti inconsci, tra cui le
nostre necessità più profonde alle quali non diamo attenzione.
Senza voler davvero andare così lontano basti
pensare che la noia per esempio è anche una possibilità creativa, nel
suo manifestarsi crea la frustrazione, l’insoddisfazione,
che ci costringe a trovare soluzioni alternative; in questo senso basta
guardare i bambini ed i giochi che si inventano quando non sanno cosa fare, i
giochi più strani ma anche i più divertenti. E questo è molto diverso
dall’avere una soluzione già pronta, ha il sapore del “sorprendendente”, quante volte ci scopriamo o ci siamo scoperti a
divertirci più del solito, magari con il partner oppure in famiglia o con gli
amici, proprio nelle situazioni noiose? Questo perché le soluzioni che emergono sul momento sono più significative, parlano di quello che siamo in quel preciso
momento della vita, al contrario delle alternative che vengono preparate in
anticipo ed appaiono vuote di senso.
Allora diventa sempre più importante oggi riuscire
a perdersi davvero, con consapevolezza e
tranquillità, e lasciarsi andare al momento, un momento che più di ogni
altro ci parla di quello che siamo ora e ci fa sentire profondamente dentro noi
stessi, e ci può aiutare più di qualunque altra cosa a conoscerci o
riconoscerci per la nostra speciale unicità.
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