Questa idea però non è corretta; basti pensare che
è proprio tramite l’attività di gioco
che tanto il bambino quanto l’adulto imparano a gestire le proprie emozioni;
pensiamo per esempio all’aggressività che può essere agita “come se” fosse vera e quindi liberata in maniera inoffensiva.
In questo senso il gioco diventa un modo adeguato
per scaricare energia in eccesso, ma la sua utilità non si limita a questo. Pensando al rapporto genitori-figli
l’attività ludica diventa una possibilità di confronto, giocando il bambino
impara qualcosa in più sui propri genitori, li osserva e studia le loro
espressioni, i loro movimenti (ed è per questo che sono perfettamente in grado
di capire se il papà o la mamma stanno giocando solo per farlo contento oppure
perché ne hanno veramente voglia; quindi è inutile cercare di imbrogliarli!) ed
in questo modo misura le sue “forze” ed impara a comprendere quale è il suo ruolo nella famiglia, quello del
bambino appunto. Infatti a partire dai 3 anni circa il bambino più che vincere
preferisce confrontarsi con la perdita
( non è più utile farlo vincere per forza) e fa esperienza del fatto che il
suo, in famiglia, è il ruolo del “piccolo”, che i genitori sono più forti ( e
aggiungo che proprio per questo gli danno sicurezza) e così facendo inizia a confrontarsi con la realtà “vera” dalla
quale non si può uscire sempre vittoriosi. Inoltre nel confronto inizia appunto
a “studiare” i genitori ed in questo modo ad imitarli, gettando le basi per l’identificazione con i padre o la madre.
A questo punto va precisato che il gioco
acquisisce un valore affettivo sempre diverso a mano a mano che il bambino
cresce:
- Fino al primo anno di vita l’attività
ludica garantisce al bimbo le sensazioni (soprattutto corporee) che gli
permettono di esplorare se stesso ed il suo corpo ma anche quello della
madre; i giochi infatti sono quelli del toccare il corpo della mamma o gli
oggetti che la mamma guarda, oppure, quelli di agitare braccia e gambe;
questa modalità permette al bambino di distinguere tra sé e “non sé”, tra sé e l’altro.
- Intorno ai 2 anni si aggiunge la possibilità
che qualche oggetto acquisisca un valore “transizionale” ossia di sostituzione della figura di
attaccamento nel momento in cui è concretamente assente. Nel tenere con sé
sempre lo stesso pupazzo o nell’accarezzare la copertina la sera, il bambino
dimostra di riuscire a sopportare l’assenza
della mamma; di nuovo il gioco lo aiuta a separarsi e distinguersi
dalle figure di riferimento.
- Intorno ai 3 anni inizia il gioco di socializzazione; il
bambino inizia a dimostrare attivamente il desiderio di giocare con gli
altri, in primis i genitori.
- Dai 4 anni il gioco assume pienamente
il suo valore simbolico, ossia
diventa un modo per esprimere il suo mondo
interno, le sue emozioni,
per discriminarle e riconoscerle.
- Dopo i 6 anni il gioco diventa pienamente
“sociale”; il bambino inizia a
giocare in gruppo ed in questo modo impara a stare con gli altri, a rispettare
le regole e le eventuali “penitenze”.
In sintesi il gioco svolge una doppia funzione nello sviluppo
evolutivo: da una lato consente al bambino di comprendere la realtà a lui
esterna e gli consente un buon adattamento; dall’altro lo aiuta a conoscere,
interpretare e controllare il proprio mondo interno fatto di desideri, pulsioni ed istinti.
Nel suo svolgersi il bambino può comprendere ed
interiorizzare ogni nuova esperienza ed ogni nuova acquisizione e diventa in
grado di interpretare i propri desideri ed iniziare a dar loro una forma di progettualità.
Il gioco è comunque (e per gli stessi motivi) fondamentale anche per l’adulto e nel
suo svolgersi diventa un vero e proprio “archetipo”
capace di organizzare l’attività psichica dell’uomo.
In molte mitologie
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