In questi giorni
l’UNICEF è intervenuto sulla situazione di conflitto tra Israele e Gaza
dicendosi “ profondamente preoccupato” per il suo impatto sui bambini. L’infanzia dovrebbe essere
dedicata alla libera e tranquilla sperimentazione di sè e del mondo, ma come è
possibile sperimentare con serenità ed apprendere di conseguenza quando si vive
una perenne allerta ed un continuo rischio di perdere la vita o qualcuno dei
propri familiari?
A ieri risultavano
almeno 18 i bambini palestinesi che hanno perso la vita; svariati bimbi
feriti anche tra gli israeliani. Enormi sono i problemi nella striscia di Gaza
soprattutto per la carenza della situazione sanitaria ed il lancio di razzi
continua indiscriminato su entrambi i fronti; questa situazione sta mettendo a
rischio i bambini ambo le parti lasciandoli esposti a danni fisici e
psicologici.
Di nuovo, quindi, si
tende a dimenticare i diritti dei minori che vengono regolarmente subordinati
ad interessi di parte mai ben specificati. Eppure vivere perennemente in
guerra è una esperienza traumatica ripetuta che lascia profondi segni se non
nel corpo sicuramente nella mente, e lascia una seria ipoteca sulla
possibilità di uno sviluppo sano di questi bambini.
Le conseguenza di
questo “disastro” sono tanto emotive quanto cognitive.
Per esempio la
psicologia ci dice che tra i 4 e i 6 anni avviene la cosiddetta “regolazione
delle emozioni”, infatti in questo periodo i bambini vengono incoraggiati a
controllare gli scoppi di rabbia ed imparano a rispettare i loro compagni; in
definitiva diventano capaci di riconoscere il valore dell’altro ed a mediare
in caso di conflitto. Questo avviene perchè l’ambiente sociale e culturale
inizia ad influenzarli; cosa può avvenire nel caso che l’ambiente intorno a
loro è un ambiente di guerra? Chi può insegnare loro che gli scoppi di
aggressività incontrollata sono pericolosi? Pare infatti che i bambini che sono
vissuti in prolungate situazioni di conflitto manifestino da grandi comportamenti
maggiormente aggressivi e che l’impulsività diventa un atteggiamento comune.
La tendenza può essere quella a trasformare I sentimenti e le tensioni
direttamente in “azioni” irriflessive, dimostrando una mancanza di capacità di
trasformare le emozioni e gestirle. In sintesi tanta è la paura che si
ripropongano vissuti traumatici come quelli dell’infanzia che i comportamenti
sono sempre di allontanamento dal pericolo, come se nella mente si fosse creato
uno schema di autoprotezione che si è congelato e si manifesta in maniera ripetitiva ed
automatizzata, quindi senza possibilità di riflessione o mediazione razionale.
Laddove
l’affettività appare lesa si provoca un blocco di tipo cognitivo. La possibilità di
apprendere competenze “razionali” si basa su una buona base emotiva che in
questi casi può essere mancante perchè messa a rischio dalla guerra. Pare che
l’esposizione al trauma renda i processi di pensiero e mnemonici “parziali”
ed appunto “rigidi” e “ schematici”, diminuendo la capacità di
attenzione e concentrazione. Come conseguenza la capacità di apprendere
diminuisce provocando senso di depressione e fallimento in questi bambini,
creando un circolo vizionso che porta ad un ulteriore aumento dello stress
fornendo un ulteriore rischio per la loro salute mentale.
In via generale
esistono dei fattori protettivi che possono aiutare ad elaborare positivamente i
vissuti traumatici, e sono le relazioni familiari e quelle sociali più in generale.
Anche qui però esiste il rischio che il vissuto traumatico stesso “alteri” la
qualità di queste relazioni; pare infatti che i bambini palestinesi esposti ad
elevati livelli di trauma da guerra riportino una minore qualità nelle amicizie
ed una maggiore conflittualità tra fratelli. Già da quanto detto appare come le
situazioni familiari stesse di questi bambini non possano più di tanto aiutarli
a “reggere” il trauma che rappresenta un enorme fardello per i genitori
stessi. Per esempio sembra da alcuni studi effettuati che i genitori del medio
oriente vivano dei forti sensi di colpa dal momento che non si sentono nella
possibilità di garantire una sicurezza di base ai loro figli; infatti il
compito principale dei genitori è proprio quello di proteggere I figli dal
pericolo e dalle situazioni stressanti e quindi avere bambini vittime di
traumi causa impotenza e senso di fallimento. Il problema è che i bambini a
loro volta sono fortemente influenzati dallo stato d’animo dei genitori e
quindi anche in questo caso finisce per strutturarsi una sorta di circolo
vizioso in cui i figli soffrono perchè leggono la paura negli occhi dei
genitori che a loro volta individuano lo stesso sentimento nei figli e si
sentono ancora più in colpa. Quanto sia importante la sintonizzazione
emotiva
tra genitori e figli può essere spiegato partendo dalla relazione primaria
madre-bambino; il bambino già appena nato è capace di registrare lo stato
d’animo della madre e le sue espressioni facciali; immaginiamo cosa può
succedere quando un neonato legge lo sconforto e la paura nello sguardo materno. In questi casi i
bambini reagiscono in due modi, entrambi non funzionali ad un adeguato
sviluppo; da un lato possono “iper-attivarsi” diventando agitati e provocando
anche delle alterazioni fisiologiche nel loro corpo, come l’aumento del battito
cardiaco; dall’altro possono reagire con il ritiro dal mondo esterno,
isolandosi e smettendo di cercare comunicazione con le figure di attaccamento.
Questo tipo di esperienze poi si stabilizzano nella cosiddetta memoria
implicita, ossia quella che non può essere rievocata coscientemente ma che lascia
tracce in tutto il comportamento.
Questo non vale
comunque solo per il neonato, perchè anche i bambini più grandi si aggrappano
ai genitori per essere protetti, e nelle situazioni di guerra vivono nel
terrore costante che possa accadere qualcosa di grave ai membri della propria
famiglia; come si può crescere bene con la costante preoccupazione di
perdere il proprio padre o la propria madre, quando non addirittura la propria
vita?
Lo scenario che si
disegna leggendo questi dati è davvero preoccupante; rappresenta un quadro in
cui il bambino si trova chiuso in una spirale di paura dalle quale non gli è
possibile uscire perchè le uniche vie di fuga, le relazioni familiari e
sociali,
sono a loro volta compromesse e “traumatizzate”. Uno scenario dove esiste solo
una eterna, angosciante attesa del prossimo bombardamento, dove passa anche la
voglia di sopravvivere.
E (mi scuso per il
pensiero banale) nonostante ciò le guerre continuano indiscriminatamente per
interessi sempre poco chiari.
La cosa più
paradossale che a lanciare razzi sono proprio i genitori di questi bambini, i
loro fratelli, ossia proprio coloro che dovrebbero difenderli; ma forse è
proprio nell’illusione di dare loro un futuro più sicuro che lo fanno……….perchè
se la situazione continua così da anni vuol dire che c’è in gioco qualche
motivazione profonda radicata nell’anima. Spesso le guerre tra popoli non
sono altro che tentativi di distruggere e negare l’esistenza degli “altri”, di
altri che creano paura, che sono visti come una minaccia per la propria
esistenza;
ed è proprio questo che sta accadendo tra Israeliani e Palestinesi…..e
purtroppo fino a che le due parti non decidono di accettare l’una l’esistenza
dell’altra la guerra continua….indifferente ai bisogni dei più piccoli e,
paradossalmente, proprio nel pensiero delirante che sia tutto per garantire
loro un futuro più sicuro.
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