martedì 20 novembre 2012

Bambini nella guerra: il trauma e le sue conseguenze


In questi giorni l’UNICEF è intervenuto sulla situazione di conflitto tra Israele e Gaza dicendosi “ profondamente preoccupato” per il suo impatto sui bambini. L’infanzia dovrebbe essere dedicata alla libera e tranquilla sperimentazione di sè e del mondo, ma come è possibile sperimentare con serenità ed apprendere di conseguenza quando si vive una perenne allerta ed un continuo rischio di perdere la vita o qualcuno dei propri familiari?
A ieri risultavano almeno 18 i bambini palestinesi che hanno perso la vita; svariati bimbi feriti anche tra gli israeliani. Enormi sono i problemi nella striscia di Gaza soprattutto per la carenza della situazione sanitaria ed il lancio di razzi continua indiscriminato su entrambi i fronti; questa situazione sta mettendo a rischio i bambini ambo le parti lasciandoli esposti a danni fisici e psicologici.
Di nuovo, quindi, si tende a dimenticare i diritti dei minori che vengono regolarmente subordinati ad interessi di parte mai ben specificati. Eppure vivere perennemente in guerra è una esperienza traumatica ripetuta che lascia profondi segni se non nel corpo sicuramente nella mente, e lascia una seria ipoteca sulla possibilità di uno sviluppo sano di questi bambini.
Le conseguenza di questo “disastro” sono tanto emotive quanto cognitive.
Per esempio la psicologia ci dice che tra i 4 e i 6 anni avviene la cosiddetta “regolazione delle emozioni”, infatti in questo periodo i bambini vengono incoraggiati a controllare gli scoppi di rabbia ed imparano a rispettare i loro compagni; in definitiva diventano capaci di riconoscere il valore dell’altro ed a mediare in caso di conflitto. Questo avviene perchè l’ambiente sociale e culturale inizia ad influenzarli; cosa può avvenire nel caso che l’ambiente intorno a loro è un ambiente di guerra? Chi può insegnare loro che gli scoppi di aggressività incontrollata sono pericolosi? Pare infatti che i bambini che sono vissuti in prolungate situazioni di conflitto manifestino da grandi comportamenti maggiormente aggressivi e che l’impulsività diventa un atteggiamento comune. La tendenza può essere quella a trasformare I sentimenti e le tensioni direttamente in “azioni” irriflessive, dimostrando una mancanza di capacità di trasformare le emozioni e gestirle. In sintesi tanta è la paura che si ripropongano vissuti traumatici come quelli dell’infanzia che i comportamenti sono sempre di allontanamento dal pericolo, come se nella mente si fosse creato uno schema di autoprotezione che si è congelato e si  manifesta in maniera ripetitiva ed automatizzata, quindi senza possibilità di riflessione o mediazione razionale.
Laddove l’affettività appare lesa si provoca un blocco di tipo cognitivo. La possibilità di apprendere competenze “razionali” si basa su una buona base emotiva che in questi casi può essere mancante perchè messa a rischio dalla guerra. Pare che l’esposizione al trauma renda i processi di pensiero e mnemonici “parziali” ed appunto “rigidi” e “ schematici”, diminuendo la capacità di attenzione e concentrazione. Come conseguenza la capacità di apprendere diminuisce provocando senso di depressione e fallimento in questi bambini, creando un circolo vizionso che porta ad un ulteriore aumento dello stress fornendo un ulteriore rischio per la loro salute mentale.
In via generale esistono dei fattori protettivi che possono aiutare ad elaborare positivamente i vissuti traumatici, e sono le relazioni familiari e quelle sociali più in generale. Anche qui però esiste il rischio che il vissuto traumatico stesso “alteri” la qualità di queste relazioni; pare infatti che i bambini palestinesi esposti ad elevati livelli di trauma da guerra riportino una minore qualità nelle amicizie ed una maggiore conflittualità tra fratelli. Già da quanto detto appare come le situazioni familiari stesse di questi bambini non possano più di tanto aiutarli a “reggere” il trauma che rappresenta un enorme fardello per i genitori stessi. Per esempio sembra da alcuni studi effettuati che i genitori del medio oriente vivano dei forti sensi di colpa dal momento che non si sentono nella possibilità di garantire una sicurezza di base ai loro figli; infatti il compito principale dei genitori è proprio quello di proteggere I figli dal pericolo e dalle situazioni stressanti e quindi avere bambini vittime di traumi causa impotenza e senso di fallimento. Il problema è che i bambini a loro volta sono fortemente influenzati dallo stato d’animo dei genitori e quindi anche in questo caso finisce per strutturarsi una sorta di circolo vizioso in cui i figli soffrono perchè leggono la paura negli occhi dei genitori che a loro volta individuano lo stesso sentimento nei figli e si sentono ancora più in colpa. Quanto sia importante la sintonizzazione emotiva tra genitori e figli può essere spiegato partendo dalla relazione primaria madre-bambino; il bambino già appena nato è capace di registrare lo stato d’animo della madre e le sue espressioni facciali; immaginiamo cosa può succedere quando un neonato legge lo sconforto e la paura nello sguardo materno. In questi casi i bambini reagiscono in due modi, entrambi non funzionali ad un adeguato sviluppo; da un lato possono “iper-attivarsi” diventando agitati e provocando anche delle alterazioni fisiologiche nel loro corpo, come l’aumento del battito cardiaco; dall’altro possono reagire con il ritiro dal mondo esterno, isolandosi e smettendo di cercare comunicazione con le figure di attaccamento. Questo tipo di esperienze poi si stabilizzano nella cosiddetta memoria implicita, ossia quella che non può essere rievocata coscientemente ma che lascia tracce in tutto il comportamento.
Questo non vale comunque solo per il neonato, perchè anche i bambini più grandi si aggrappano ai genitori per essere protetti, e nelle situazioni di guerra vivono nel terrore costante che possa accadere qualcosa di grave ai membri della propria famiglia; come si può crescere bene con la costante preoccupazione di perdere il proprio padre o la propria madre, quando non addirittura la propria vita?
Lo scenario che si disegna leggendo questi dati è davvero preoccupante; rappresenta un quadro in cui il bambino si trova chiuso in una spirale di paura dalle quale non gli è possibile uscire perchè le uniche vie di fuga, le relazioni familiari e sociali, sono a loro volta compromesse e “traumatizzate”. Uno scenario dove esiste solo una eterna, angosciante attesa del prossimo bombardamento, dove passa anche la voglia di sopravvivere.
E (mi scuso per il pensiero banale) nonostante ciò le guerre continuano indiscriminatamente per interessi sempre poco chiari.
La cosa più paradossale che a lanciare razzi sono proprio i genitori di questi bambini, i loro fratelli, ossia proprio coloro che dovrebbero difenderli; ma forse è proprio nell’illusione di dare loro un futuro più sicuro che lo fanno……….perchè se la situazione continua così da anni vuol dire che c’è in gioco qualche motivazione profonda radicata nell’anima. Spesso le guerre tra popoli non sono altro che tentativi di distruggere e negare l’esistenza degli “altri”, di altri che creano paura, che sono visti come una minaccia per la propria esistenza; ed è proprio questo che sta accadendo tra Israeliani e Palestinesi…..e purtroppo fino a che le due parti non decidono di accettare l’una l’esistenza dell’altra la guerra continua….indifferente ai bisogni dei più piccoli e, paradossalmente, proprio nel pensiero delirante che sia tutto per garantire loro un futuro più sicuro.

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