sabato 24 novembre 2012

Aggressività vs Assertività (2): Esprimersi con sicurezza


Quante volte pur avendo ragione si finisce dalla parte del torto? A volte succede che nonostante le nostre opinioni siano corrette non riusciamo a difenderle, e questo perchè non riusciamo ad esprimerle nella forma più adeguata; può capitare che ci arrabbiamo troppo rischiando di passare per persone impulsive ed aggressive (nonostante, magari, ci stiamo solo difendendo) oppure ci dimostriamo insicuri, incerti in quello che affermiamo, dando all’altro la possibilità di dubitare di noi e delle nostre affermazioni.
Per poter esprimersi con sicurezza ci viene in aiuto quella che gli psicologi chiamano assertività. Già il termine dà qualche spiegazione; dal latino “ad serere”, condurre a sè, e da qui “asserire” ed asserzione, affermazione di sè, caratteristica del comportamento umano che consiste nella capacità di esprimere in modo chiaro ed efficace le proprie emozioni ed opinioni.
Dimostrarsi assertivi significa sviluppare alcune specifiche competenze tramite le quali si esprime il comportamento assertivo;
  • Innanzitutto essere capaci di dire No, senza però svalutare l’altro o rifiutarlo. Questo significa riuscire a superare la paura di poterlo ferire.
  • Saper rischiare e saper chiedere; in questo modo ci si dimostra capaci di assumersi le responsabilità delle proprie richieste e di comunicare agli altri le proprie aspettative anche se questo può portare ad un conflitto; uno dei modi migliori per imparare a rischiare in questo senso è fare richieste in maniera diretta, evitando giustificazioni, e poi riflettere su quali risultati si sono ottenuti per poter eventualmente modificare la modalità.
  • Saper criticare; questo significa passare da una modalità esclusivamente “giudicante” ad una più “osservante”, giudicare non tanto la persona quanto la situazione o il comportamento dell’altro ed esprimere il giudizio come una opinione personale piuttosto che “assoluta”.
  • Saper rispondere alle critiche, accettando gli eventuali errori commessi ed imparando da essi.
  • Saper decidere e realizzare obiettivi concreti, ossia legati alla consapevolezza dei propri limiti e delle reali potenzialità.
  • Saper perseverare, senza perdersi troppo d’animo se non si è riusciti a realizzare degli obiettivi ma cercando comunque di migliorarsi per la prossima volta (nel tentativo di migliorare noi stessi non ci deve “correre dietro” nessuno!).
Queste sono, per così dire, le “evidenze” comportamentali di un “pensare” assertivo, ossia di un lavoro sui pensieri appunto, che comporta l’abbandono delle convinzioni svalutative su noi stessi, che spesso sono legate al nostro passato ed a vecchie esperienze, magari dolorose, dalle quali non riusciamo a separarci. Oltre all’area comportamentale e cognitiva però va considerata anche quella emotiva; è fondamentale conoscere cioè le proprie emozioni, senza giudicarle, perchè solo così facendo perdono il loro carattere “travolgente” e possono diventare gestibili.
In sintesi si potrebbe dire che al fondo dell’assertività si cela la consapevolezza di sè, innanzitutto del proprio stile comunicativo, sia esso aggressivo o anassertivo-passivo, che va accettato (come vanno accettate le esperienze passate alla base dei pensieri svalutativi di cui sopra). Ancora è importante lavorare sulla consapevolezza di quella che Jung chiamava Ombra, ossia tutto ciò che non ci piace di noi stessi, che non vorremmo vedere o che abbiamo rimosso nell’inconscio; in questo modo ci sentiremo liberi di dare maggiore spazio ai nostri bisogni ma anche ai nostri sogni, ai pregi come ai difetti, dando voce alla paura, alla rabbia e ad ogni altro desiderio che non abbiamo il coraggio di pensare.
Fatto questo diventa possibile agire il cambiamento, provando a modificare concretamente i nostri comportamenti assumendoci con coraggio le rispettive responsabilità, iniziando da modifiche in quelle aree della nostra esperienza che ci garantiscano un buon margine di successo, per poi muoverci gradualmente verso aree più “rischiose”.
Per ultimo, ma probabilmente è l’elemento più importante, non bisogna dimenticare che l’assertività è il mondo della libertà di scelta e questo significa che non è possibile nè utile essere sempre assertivi, perchè si finirebbe in un corpo a corpo con le pulsioni e gli istinti più profondi da cui non si può uscire vincitori usando la razionalità; quindi è necessario dare spazio a tutto ciò che di irrazionale alberga in noi potendo però decidere come, quanto e quando esprimerlo….e questo vuol dire decidere come, quanto e quando essere assertivi e quando invece dare spazio a quel briciolo di follia che alberga in tutti noi e che sta alla base della creatività. 

martedì 20 novembre 2012

Bambini nella guerra: il trauma e le sue conseguenze


In questi giorni l’UNICEF è intervenuto sulla situazione di conflitto tra Israele e Gaza dicendosi “ profondamente preoccupato” per il suo impatto sui bambini. L’infanzia dovrebbe essere dedicata alla libera e tranquilla sperimentazione di sè e del mondo, ma come è possibile sperimentare con serenità ed apprendere di conseguenza quando si vive una perenne allerta ed un continuo rischio di perdere la vita o qualcuno dei propri familiari?
A ieri risultavano almeno 18 i bambini palestinesi che hanno perso la vita; svariati bimbi feriti anche tra gli israeliani. Enormi sono i problemi nella striscia di Gaza soprattutto per la carenza della situazione sanitaria ed il lancio di razzi continua indiscriminato su entrambi i fronti; questa situazione sta mettendo a rischio i bambini ambo le parti lasciandoli esposti a danni fisici e psicologici.
Di nuovo, quindi, si tende a dimenticare i diritti dei minori che vengono regolarmente subordinati ad interessi di parte mai ben specificati. Eppure vivere perennemente in guerra è una esperienza traumatica ripetuta che lascia profondi segni se non nel corpo sicuramente nella mente, e lascia una seria ipoteca sulla possibilità di uno sviluppo sano di questi bambini.
Le conseguenza di questo “disastro” sono tanto emotive quanto cognitive.
Per esempio la psicologia ci dice che tra i 4 e i 6 anni avviene la cosiddetta “regolazione delle emozioni”, infatti in questo periodo i bambini vengono incoraggiati a controllare gli scoppi di rabbia ed imparano a rispettare i loro compagni; in definitiva diventano capaci di riconoscere il valore dell’altro ed a mediare in caso di conflitto. Questo avviene perchè l’ambiente sociale e culturale inizia ad influenzarli; cosa può avvenire nel caso che l’ambiente intorno a loro è un ambiente di guerra? Chi può insegnare loro che gli scoppi di aggressività incontrollata sono pericolosi? Pare infatti che i bambini che sono vissuti in prolungate situazioni di conflitto manifestino da grandi comportamenti maggiormente aggressivi e che l’impulsività diventa un atteggiamento comune. La tendenza può essere quella a trasformare I sentimenti e le tensioni direttamente in “azioni” irriflessive, dimostrando una mancanza di capacità di trasformare le emozioni e gestirle. In sintesi tanta è la paura che si ripropongano vissuti traumatici come quelli dell’infanzia che i comportamenti sono sempre di allontanamento dal pericolo, come se nella mente si fosse creato uno schema di autoprotezione che si è congelato e si  manifesta in maniera ripetitiva ed automatizzata, quindi senza possibilità di riflessione o mediazione razionale.
Laddove l’affettività appare lesa si provoca un blocco di tipo cognitivo. La possibilità di apprendere competenze “razionali” si basa su una buona base emotiva che in questi casi può essere mancante perchè messa a rischio dalla guerra. Pare che l’esposizione al trauma renda i processi di pensiero e mnemonici “parziali” ed appunto “rigidi” e “ schematici”, diminuendo la capacità di attenzione e concentrazione. Come conseguenza la capacità di apprendere diminuisce provocando senso di depressione e fallimento in questi bambini, creando un circolo vizionso che porta ad un ulteriore aumento dello stress fornendo un ulteriore rischio per la loro salute mentale.
In via generale esistono dei fattori protettivi che possono aiutare ad elaborare positivamente i vissuti traumatici, e sono le relazioni familiari e quelle sociali più in generale. Anche qui però esiste il rischio che il vissuto traumatico stesso “alteri” la qualità di queste relazioni; pare infatti che i bambini palestinesi esposti ad elevati livelli di trauma da guerra riportino una minore qualità nelle amicizie ed una maggiore conflittualità tra fratelli. Già da quanto detto appare come le situazioni familiari stesse di questi bambini non possano più di tanto aiutarli a “reggere” il trauma che rappresenta un enorme fardello per i genitori stessi. Per esempio sembra da alcuni studi effettuati che i genitori del medio oriente vivano dei forti sensi di colpa dal momento che non si sentono nella possibilità di garantire una sicurezza di base ai loro figli; infatti il compito principale dei genitori è proprio quello di proteggere I figli dal pericolo e dalle situazioni stressanti e quindi avere bambini vittime di traumi causa impotenza e senso di fallimento. Il problema è che i bambini a loro volta sono fortemente influenzati dallo stato d’animo dei genitori e quindi anche in questo caso finisce per strutturarsi una sorta di circolo vizioso in cui i figli soffrono perchè leggono la paura negli occhi dei genitori che a loro volta individuano lo stesso sentimento nei figli e si sentono ancora più in colpa. Quanto sia importante la sintonizzazione emotiva tra genitori e figli può essere spiegato partendo dalla relazione primaria madre-bambino; il bambino già appena nato è capace di registrare lo stato d’animo della madre e le sue espressioni facciali; immaginiamo cosa può succedere quando un neonato legge lo sconforto e la paura nello sguardo materno. In questi casi i bambini reagiscono in due modi, entrambi non funzionali ad un adeguato sviluppo; da un lato possono “iper-attivarsi” diventando agitati e provocando anche delle alterazioni fisiologiche nel loro corpo, come l’aumento del battito cardiaco; dall’altro possono reagire con il ritiro dal mondo esterno, isolandosi e smettendo di cercare comunicazione con le figure di attaccamento. Questo tipo di esperienze poi si stabilizzano nella cosiddetta memoria implicita, ossia quella che non può essere rievocata coscientemente ma che lascia tracce in tutto il comportamento.
Questo non vale comunque solo per il neonato, perchè anche i bambini più grandi si aggrappano ai genitori per essere protetti, e nelle situazioni di guerra vivono nel terrore costante che possa accadere qualcosa di grave ai membri della propria famiglia; come si può crescere bene con la costante preoccupazione di perdere il proprio padre o la propria madre, quando non addirittura la propria vita?
Lo scenario che si disegna leggendo questi dati è davvero preoccupante; rappresenta un quadro in cui il bambino si trova chiuso in una spirale di paura dalle quale non gli è possibile uscire perchè le uniche vie di fuga, le relazioni familiari e sociali, sono a loro volta compromesse e “traumatizzate”. Uno scenario dove esiste solo una eterna, angosciante attesa del prossimo bombardamento, dove passa anche la voglia di sopravvivere.
E (mi scuso per il pensiero banale) nonostante ciò le guerre continuano indiscriminatamente per interessi sempre poco chiari.
La cosa più paradossale che a lanciare razzi sono proprio i genitori di questi bambini, i loro fratelli, ossia proprio coloro che dovrebbero difenderli; ma forse è proprio nell’illusione di dare loro un futuro più sicuro che lo fanno……….perchè se la situazione continua così da anni vuol dire che c’è in gioco qualche motivazione profonda radicata nell’anima. Spesso le guerre tra popoli non sono altro che tentativi di distruggere e negare l’esistenza degli “altri”, di altri che creano paura, che sono visti come una minaccia per la propria esistenza; ed è proprio questo che sta accadendo tra Israeliani e Palestinesi…..e purtroppo fino a che le due parti non decidono di accettare l’una l’esistenza dell’altra la guerra continua….indifferente ai bisogni dei più piccoli e, paradossalmente, proprio nel pensiero delirante che sia tutto per garantire loro un futuro più sicuro.

venerdì 16 novembre 2012

Piccoli bambini per grandi bugie: come reagire di fronte alle bugie dei piccoli


 Un bambino all’età di 2/3 anni è capace di dire davvero delle grandi fandonie; può incolpare di un suo misfatto il fratellino o la sorellina appena nati (e che ancora non sanno neanche camminare) o il cane (che però magari non entra mai in casa), può dire con la massima sicurezza di aver visto un coccodrillo al supermercato…..ma sono bugie innocue, trasparenti, un gioco con la fantasia. A partire dai 6 anni le cose cambiano, cambia il bambino e cambiano le sue bugie, proprio come lui diventano più furbe, e anche più intenzionali; intorno a questa età si comincia a distinguere più chiaramente il vero dal falso, ed a riconoscerli, e quindi solo a partire da qui si può parlare davvero di bugie nell’accezione che intende un adulto. La principale differenza è che ora sa di mentire mentre prima era lui stesso il primo a credere alle sue “assurdità” ed a stupirsi che gli altri non lo facevano; questo perchè la differenza tra realtà e fantasia era meno chiara, se negavano di aver fatto un danno è perchè desideravano davvero non averlo fatto, e pensavano che negandolo avrebbero potuto in qualche modo modificare il passato. Quando crescono iniziano a rendersi conto che non è più sufficiente negare ciò che è accaduto per trasformarlo; nonostante questo però possono continuare a farlo e se la cosa assume una rilevanza “massiccia” diventa un problema.
Un esempio può essere quello dell’accusare altri per ciò che lui ha fatto; come già detto fino ad una certa età è naturale, in questo modo il bambino si libera del “bambino cattivo” che c’è dentro di lui. Comunque nel tempo inizia a conoscere ed accettare anche questa parte “negativa” di sè e piano piano ad assumersi le sue piccole responsabilità, tutto questo perchè inizia a sentirsi più sicuro di sè, e ad acquisire maggiore fiducia nelle sue capacità, tra cui, appunto, quella di sopportare eventuali giuste punizioni e la capacità di ridimensionare le sue colpe, che fino ad ora poteva apparirgli enormi anche se erano bazzeccole agli occhi degli adulti.
Se questo comportamento continua (in maniera esagerata) indica che il bambino non riesce ad accettarsi, che ha paura della sua cattiveria e che non riesce a gestirla, che è troppo intransigente con se stesso; questo atteggiamento può comunque essere risultato di uno stile educativo troppo intransigente a sua volta; se per esempio il bambino viene giudicato troppo severamente la bugia si trasforma in una difesa dalla paura di deludere mamma e papa…fissandosi stabilmente nel comportamento. Inoltre può portarlo all’abitudine di dare la colpa agli altri, cosa che risulterà controproducente anche alla sua socializzazione visto che per salvare se stesso finisce per “colpire” gli altri.
In questi casi è importante non essere troppo duri e severi nel giudicare le bugie, gli vanno fatte notare senza infierire, facendogli capire che non è la fine del mondo ma anche che non è giusto incolpare altri per i propri errori. Gli si può chiedere qualche spiegazione per il suo comportamento lasciandogli però qualche “via di fuga”, magari accettando qualcuna delle sue giustificazioni. Così facendo lo si aiuta a ristrutturare la stima in se stesso che probabilmente è venuta a mancare.
Comunque anche dopo i 6/7 anni i bambini possono continuare a dire bugie per cercare di modificare la realtà tramite il cosiddetto “pensiero magico”; non si limitano a fantasticare ma trasformano i loro desideri in racconto, per esempio tendono ad esagerare qualche loro impresa o le condizioni socio-economiche della famiglia; in genere enfatizzano elementi di verità. Il motivo di questa megalomania è che il bimbo cerca di contrastare il suo essere “piccolo” usando il senso di onnipotenza. Fino a qui tutto normale, ma sulla scia della fantasticheria e dell’onnipotenza può anche emergere un forte bisogno di autoconsolazione dal sentirsi poco amati o poco apprezzati. A volte infatti questo tipo di bugie può segnalare uno stato di disagio che viene appunto trasformato in fantasia, per esempio raccontare di aver passato delle fantastiche feste in famiglia mentre magari nella realtà I genitori stanno separandosi, oppure di aver avuto un bellissimo voto a scuola quando invece è vero il contrario. In questo caso per il bambino è difficile sopportare la frustrazione ed il dolore, che spesso sono davvero troppo per lui, e così facendo prova a negarli e spera che raccontando cose belle queste potranno davvero realizzarsi.
Anche in questo caso non serve riprendere duramente il bambino, anzi è necessario comprenderlo ed aiutarlo a capire che non è possibile cambiare la realtà di punto in bianco in modo “magico” ma che serve tempo per farlo; l’attenzione va  posta non tanto sulla bugia quanto sul tentativo di accettare le sofferenze del bambino, il suo possibile senso di inferiorità o le sue paure.
Comunque al di là di queste particolari situazioni per evitare un eccesso di bugie è importante che i genitori siano esempio di sincerità.
Per esempio se chiede di cose che non può ancora sapere è sufficiente dirgli chiaramente che non sono cose che devono interessarlo piuttosto che raccontargli una falsa verità. Inoltre è importante mantenere le promesse; in caso contrario il bambino si sente ingannato, quindi è meglio essere il più chiari possibile piuttosto che trovarsi poi a non mantenere ciò che si è promesso.
Inoltre i bambini possono perdere fiducia nel genitore anche quando non mente direttamente a loro ma ad altri, magari coinvolgendoli nella bugie (per esempio farsi negare al telefono!). E’ ovvio che non si può essere sempre sinceri neanche (e soprattutto) tra adulti, però in questi casi è meglio ammettere che anche gli adulti mentono oppure che a volte alcune bugie possono essere necessarie, per esempio per non far soffrire gli altri o per non complicare i rapporti, magari non tanto “falsando” ma “ammorbidendo” la verità.
Per evitare che la bugia si stabilizzi come forma di difesa è necessario non dimostrarsi troppo intransigenti. Anzi, c’è da dire che la bugia è anche segno di autonomizzazione del bambino, per esempio a partire dai 5/6 anni iniziano i primi segreti, a volte protetti proprio da qualche bugia, che però indicano che è avvenuta una separazione e che il bambino ha strutturato la propria individualità ed il proprio mondo interno e privato.
Infine è importante evitare le confessioni a tutti i costi, sono dolorose per i bambini e li fanno sentire esposti ed indifesi; se la bugia non viene ammessa in nessun modo meglio non insistere troppo, se i motivi per cui non deve dirle gli sono chiari il bambino non esagererà più.
Comunque bisogna ricordare che  tutti i bambini mentono, è inutile farne un dramma anzi ci sarebbe da preoccuparsi del contrario; per dire una bugia, infatti, è necessario riuscire a comprendere come l’altra persona pensa, quali cose si aspetta, quali sono le sue opinioni, altrimenti si verrebbe scoperti facilmente; in questo senso la capacità di mentire in maniera più “sottile” ci fa capire che il bambino è ora capace di comprendere gli altri e di mettersi nei loro panni, consapevolezza fondamentale per costruire le sue future relazioni.


sabato 10 novembre 2012

Aggressività vs Assertività (1): 3 stili comunicativi


Nei media l’aggressità “fa audience” e questo significa che in qualche modo ci affascina, forse perchè in questo modo vediamo e ascoltiamo un modello comunicativo che nella vita di tutti i giorni non ci permetteremmo di attuare pur magari desiderandolo.  Ma alla fine questo modello non è l’unico, la psicologia ci dice infatti che esistono anche il modello anassertivo (più passivo) e quello assertivo (il più efficace tra i tre).

Si! L’aggressività in TV ci piace, ci piace vederla, ci piace ascoltarla, e questo nonostante tendiamo a considerare sgradevoli le persone che la utilizzano per far valere il proprio punto di vista, ma perchè?
Innanzitutto perchè le persone aggressive appaiono “vincenti” rispetto ad altri, nonostante spesso si muovano sul filo della prevaricazione; secondariamente perchè ci permettono di proiettare i nostri stessi desideri di vittoria o di prevaricazione.
In effetti l’aggressività è un retaggio della specie, propria cioè dei nostri progenitori che vivevano nelle caverne e che proprio grazie ad essa si procuravano il cibo o difendevano il clan. Quindi in sè per sè non ha nulla di particolarmente deplorevole, la differenza con quanto accade oggi è che queste necessità primarie (fortunatamente) sono meno impellenti; almeno nel nostro mondo occidentale non dobbiamo (quasi più ) lottare per mangiare  o per difendere la nostra vita o quella dei familiari. La conseguenza di questo è che spesso tutta questa aggressività appare fuori luogo.
Nonostante ciò ci troviamo comunque molto spesso a dover difendere una nostra opinione oppure una nostra idea, vuoi che sia un progetto o un modo di essere; è proprio in questi casi che ci piacerebbe riuscire ad imporci ma a volte non ci riusciamo (per paura di perdere una relazione o magari il lavoro) e tendiamo ad assumere un comportamento che gli psicologi chiamano “anassertivo” ossia passivo, in sintesi tendiamo per buona pace a trascurare i nostri bisogni di fronte a quelli altrui.
Fino a qui ci stiamo confrontando con una dinamica del tipo “vittima-carnefice”; ma allora com’è che riusciamo a non annullarci l’un l’altro? Questo è possibile perchè esiste anche una terza via, che è quella dell’assertività, ossia la capacità di esprimere se stessi e le proprie opinioni senza prevaricare gli altri; per capire meglio può essere utile mettere a confronto gli “stili comunicativi” che emergono da queste tre tipologie di comportamenti.
  • Lo stile aggressivo si caratterizza per comportamenti improntati al dominio ed alla prevaricazione degli altri senza tenere conto di quello che pensano o provano; il risultato è che l’altro finisce per “chiudersi” e comportarsi passivamente  oppure, viceversa, che reagisca a sua volta aggressivamente generando una spirale di violenza. In realtà la persona aggressiva non è realmente forte o sicura di sè, tutt’altro, è in realtà incerta ed ha una inconscia percezione di debolezza; si potrebbe dire che aggredisce per non essere aggredita spesso per evitare di provare paura.
  • All’opposto abbiamo lo stile anassertivo, che si manifesta con comportamenti passivi ed inibiti e con la tendenza a non esprimere il proprio punto di vista per non inimicarsi gli altri. In genere questo è un modo per non perdere delle relazioni importanti e per evitare che venga ferita la propria autostima. Il rischio è che si può soffrire molto, diventando ipersensibili alle critiche fino a non riuscire a reggere neanche battute del tutto innocue. Spesso queste persone stabiliscono dei rapporti di dipendenza dagli altri, e per non perderli tendono a compiacerli non esprimendo le proprie opinioni.
  • La terza via è appunto quella dello stile “assertivo”, che invece si caratterizza per la capacità di esprimere i propri desideri ed i propri punti di vista mantenedo comunque il rispetto per gli altri e per i loro desideri e diritti; in questo senso la persona assertiva è disposta a negoziare senza rinunciare a farsi valere, magari aspettando un momento migliore per esprimersi senza però trascurare di far valere, anche se in un momento diverso, la propria opinione.
Da quanto esposto si evince che lo stile di comunicazione assertivo sarebbe quello migliore dei tre….ma è anche vero che non è sempre semplice da applicare, si basa infatti su dei prerequisiti a loro volta abbastanza impegnativi:
  • Stima di sè, ossia la capacità di credere nel proprio valore in maniera obiettiva, senza idealizzazione, che vuol dire basarlo su ciò che si è piuttosto che su ciò che si riesce a realizzare o ciò che si “fantastica” di realizzare, significa saper vivere nel presente e giudicare non tanto le persone quanto le situazioni;
  • Consapevolezza di sè, ossia la capacità di ascoltare le proprie emozioni, i propri desideri, e di accettarsi nei propri difetti pur cercando di migliorarsi;
  • Sentimento del potere a somma variabile, ossia la capacità di apprezzare il valore altrui nel momento in cui si è in conflitto, di accettare le opinioni dell’altro pur non condividendole; vuol dire riconoscere i conflitti sforzandosi di collaborare piuttosto che vincere;
  • Saper comunicare ed esprimere le proprie emozioni ed i propri sentimenti, senza per questo sentirsi più deboli bensì liberi di esprimere la propria autenticità.
Detto questo l’assertività non è semplice da applicare, ed in effetti non ci riusciamo sempre, e questo è anche un bene; non bisogna pensare che assertività sia sinonimo di perfezione, è anzi vero il contrario, è accettazione della proprio umanità, delle proprie debolezze e dei propri difetti, anzi si può dire che senza questi non esisterebbe proprio, esisterebbe solo l’onnipotenza.
Essere assertivi significa in fondo sentirsi liberi di essere se stessi nella propria autenticità, significa poter sbagliare ma anche (e soprattutto) trovare il modo per ammetterlo per poi cercare di riparare all’errore; allora si può anche essere aggressivi a volte, altre si può chinare il capo, magari per non far del male agli altri, senza perdere però di vista i propri valori profondi e cercando di applicare il più possibile il rispetto per gli altrui diritti………continua...

sabato 3 novembre 2012

Perchè è importante giocare con i figli



Secondo un articolo recentemente pubblicato da Repubblica pare che i genitori italiani diano poca importanza ai momenti di gioco con i propri figli tanto da dedicare a questa attività solo 15 minuti al giorno in media (minuti ripartiti in “quasi mai” durante la settimana e poco tempo durante il week end); il resto del tempo disponibile fuori dal lavoro viene speso per i compiti oppure portandosi dietro i figli nelle diverse attività come fare la spesa oppure, ancora, accompagnando i pargoli ai vari corsi a cui vengono regolarmente iscritti. Tutto questo non stupisce se si pensa che solo 1 su 5 genitori intervistati ritengono il gioco una attività importante.
Questa idea però non è corretta; basti pensare che è proprio tramite l’attività di gioco che tanto il bambino quanto l’adulto imparano a gestire le proprie emozioni; pensiamo per esempio all’aggressività che può essere agita “come se” fosse vera e quindi liberata in maniera inoffensiva.
In questo senso il gioco diventa un modo adeguato per scaricare energia in eccesso, ma la sua utilità non si limita a questo. Pensando al rapporto genitori-figli l’attività ludica diventa una possibilità di confronto, giocando il bambino impara qualcosa in più sui propri genitori, li osserva e studia le loro espressioni, i loro movimenti (ed è per questo che sono perfettamente in grado di capire se il papà o la mamma stanno giocando solo per farlo contento oppure perché ne hanno veramente voglia; quindi è inutile cercare di imbrogliarli!) ed in questo modo misura le sue “forze” ed impara a comprendere quale è il suo ruolo nella famiglia, quello del bambino appunto. Infatti a partire dai 3 anni circa il bambino più che vincere preferisce confrontarsi con la perdita ( non è più utile farlo vincere per forza) e fa esperienza del fatto che il suo, in famiglia, è il ruolo del “piccolo”, che i genitori sono più forti ( e aggiungo che proprio per questo gli danno sicurezza) e così facendo inizia a confrontarsi con la realtà “vera” dalla quale non si può uscire sempre vittoriosi. Inoltre nel confronto inizia appunto a “studiare” i genitori ed in questo modo ad imitarli, gettando le basi per l’identificazione con i padre o la madre.
A questo punto va precisato che il gioco acquisisce un valore affettivo sempre diverso a mano a mano che il bambino cresce:
  • Fino al primo anno di vita l’attività ludica garantisce al bimbo le sensazioni (soprattutto corporee) che gli permettono di esplorare se stesso ed il suo corpo ma anche quello della madre; i giochi infatti sono quelli del toccare il corpo della mamma o gli oggetti che la mamma guarda, oppure, quelli di agitare braccia e gambe; questa modalità permette al bambino di distinguere tra sé e “non sé”, tra sé e l’altro.
  • Intorno ai 2 anni si aggiunge la possibilità che qualche oggetto acquisisca un valore “transizionale” ossia di sostituzione della figura di attaccamento nel momento in cui è concretamente assente. Nel tenere con sé sempre lo stesso pupazzo o nell’accarezzare la copertina la sera, il bambino dimostra di riuscire a sopportare l’assenza della mamma; di nuovo il gioco lo aiuta a separarsi e distinguersi dalle figure di riferimento.
  • Intorno ai 3 anni inizia il gioco di socializzazione; il bambino inizia a dimostrare attivamente il desiderio di giocare con gli altri, in primis i genitori.
  • Dai 4 anni il gioco assume pienamente il suo valore simbolico, ossia diventa un modo per esprimere il suo mondo interno, le sue emozioni, per discriminarle e riconoscerle.
  • Dopo i 6 anni il gioco diventa pienamente “sociale”; il bambino inizia a giocare in gruppo ed in questo modo impara a stare con gli altri, a rispettare le regole e le eventuali “penitenze”.
In sintesi il gioco svolge una doppia funzione nello sviluppo evolutivo: da una lato consente al bambino di comprendere la realtà a lui esterna e gli consente un buon adattamento; dall’altro lo aiuta a conoscere, interpretare e controllare il proprio mondo interno fatto di  desideri, pulsioni ed istinti.
Nel suo svolgersi il bambino può comprendere ed interiorizzare ogni nuova esperienza ed ogni nuova acquisizione e diventa in grado di interpretare i propri desideri ed iniziare a dar loro una forma di progettualità.
Il gioco è comunque (e per gli stessi motivi) fondamentale anche per l’adulto e nel suo svolgersi diventa un vero e proprio “archetipo” capace di organizzare l’attività psichica dell’uomo.
In molte mitologie la Divinità è vista come impegnata in una attività di gioco e che giocando (come Shiva per gli Indù) oppure danzando (come la Sapienza di Dio) crea il mondo; in questo modo l’uomo subisce il “gioco” divino ma può anche imitarlo finendo per incarnare la creatività divina e per realizzarla creando arte e cultura.