lunedì 24 dicembre 2012
domenica 23 dicembre 2012
Tempo di regali: sul valore psicologico del dono e del "donarsi"
Quello
del regalo è uno dei gesti più
antichi della tradizione dell’uomo ed è carico di significato; è un’usanza che
esiste da sempre e, qualunque sia l’occasione per la quale vi si ricorre, è
molto più che una prassi tradizionale o l’adempimento a un dovere legato a una
circostanza particolare. Regalare
qualcosa a qualcuno è un gesto relazionale che mostra un certo impatto emotivo:
con l’azione del dono inviamo un
messaggio a colui che lo riceve e sveliamo
una parte di noi stessi che si manifesta nella scelta di quel determinato
regalo per quella specifica persona; in questo risiede anche il valore più
strettamente psicologico del “donarsi”,
ossia lasciarsi andare all’altro, mostrare sé stessi, tanto una propria idea
quanto un’emozione.
Il regalo, in questo senso originale ed autentico, diviene quindi
un atto creativo, costruttivo ed intimo.
Nell’attuale società occidentale, purtroppo, il dono ha perso questo valore originario
assumendo un aspetto più superficiale e consumistico. Per esempio spesso si
sceglie un regalo non in base al significato dell’avvenimento da festeggiare ma
in base alla moda e alla pubblicità del
momento. La folle corsa nei negozi, la ricerca smodata e spesso obbligata di
chissà quale oggetto, l’acquisto di un regalo tanto per farlo ma senza
individuarne un senso per sé o per l’altro sono comportamenti che tolgono
valore al gesto originario.
Questa confusione sul senso del
gesto deriva però anche da una confusione
di termini; si può differenziare infatti il significato della parola “regalo” da quello del termine “dono”.
La parola Regalare ad esempio deriva da “regalia”
che erano i diritti spettanti al re di cui egli poteva fare concessione ai suoi
sottoposti per ricompensa di altri servigi. Insomma la parola regalo sembra
riportarci ad un significato molto sociale dello scambio dove cioè c’è qualcuno che fa qualche cosa in cambio di
altri interessi o per farsi vedere, per mettersi in mostra. Lo vediamo e lo
sappiamo che molti regali sono fatti con un preciso significato, una attesa di
scambio.
Noi usiamo, però, anche un’altra
parola come sinonimo di questa, soprattutto a Natale, ed è la parola dono. L’origine di questa parola è
completamente diversa essa infatti deriva proprio dal verbo dare, ed indica “ciò che si da senza attesa di ricompensa”.
Il dono implica insomma la gratuità del
dare, ed il piacere di dimostrare, con il dono, l’affetto ed il significato
che quella persona o quella relazione ha per noi.
In un significato più profondo il
dono ci mette “di fronte” alla
persona a cui viene fatto e ci fa confrontare con lei; quando il dono diventa “dono di sé”, magari in una relazione
amorosa o di amicizia, permette di capire quanto riusciamo ad impegnarci in
quel rapporto, quanto riusciamo a dare e quanto a “prendere”….oppure quanto ci “tratteniamo.
In base a questa lettura donare è anche
un rischio, rappresent6a un modo di mettersi in discussione, ci costringe a
confrontarci con la risposta dell’altro che sia essa positiva o negativa (per
esempio chiedere alla persona che ci piace di iniziare un rapporto d’amore, e
quindi “fargli dono” del nostro sentimento, comprende in sé il rischio di
venire rifiutati). Il dono allora è caratterizzato da una natura ambivalente.
Nel risalire alle origini del motivo dell'ambivalenza del dono è
significativo analizzare il termine; dôron-dôlos, dono-inganno,
come il duplice significato della parola gift: dono da una parte e veleno
dall'altra.
L'originalità di questo tema rinvia per esempio alla tradizione
greca. Da Omero ad Esiodo, da Eschilo a Platone dono è essenzialmente inganno.
Ciò concerne non uno specifico dono, ma ogni
dono; secondo il mito di Pandora («ricca di ogni dono«) il famoso Vaso di
Pandora è un dono agli uomini da parte degli Dei ma contiene anche tutti i mali
che si diffondono per il mondo intero. Ma non bisogna dimenticare che al suo
interno c’è anche la Speranza ; il dono
quindi porta anche il male (il rischio della sofferenza di donarsi agli altri)
ma nello stesso tempo rappresenta la possibilità di proteggersene.
In altri termini “donarsi”
senza avarizia agli altri può far male ma nello stesso tempo può rappresentare
anche la massima felicità (basti tornare all’esempio di cui sopra nel caso
che la persona che ci attrae accetta di stabilire un rapporto con noi).
Oggi rischiare in questo modo le proprie emozioni tende a fare
paura. La tendenza al controllo che
ci assale sempre più spesso impedisce di entrare in rapporto profondo con
gli altri ma anche con lo scorrere della
vita in generale; tendiamo quindi a trattenere
quello che proviamo oppure a metterlo in gioco solo quando ci sentiamo
abbastanza sicuri, quando abbiamo il controllo sugli eventi, secondo una
modalità dai forti tratti ossessivi;
in questo senso il cosiddetto “regalo di
consumo”, quello legato al concetto di “regalia” non è altro che una difesa
dal donarsi autentico, una difesa dettata dalla paura dell’altro.
Ma perché si evita di donarsi, ossia si evita il dono autentico,
spontaneo, libero? Forse perché così facendo non solo non si rischia se stessi,
ma anche, e soprattutto, così facendo si
tengono lontano gli altri dalla propria vita, impedendogli di portare
scompiglio con la loro novità. Il
dono infatti è cambiamento, è
sviluppo, è creazione di una situazione diversa; soprattutto è incontro e relazione.
Il dono quindi va anche accettato e questo comporta una specie di
“scelta di vita”, come dice Risè un “essere per il dono”, essere capaci di
esprimersi liberamente per quello che si è, di rischiare i propri sentimenti e,
tra l’altro, sentirsi di poter rifiutare quelli altrui; questo tipo di
comportamento comporta un “avvicinamento”
agli altri e se tutto va bene sarà
amicizia o amore; altrimenti, forse, conflitto e sofferenza. Ma solo rischiando la disperazione si può
ottenere la felicità.
In conclusione nell’esperienza del dono, e del donarsi, si esprime
una parte decisiva della vita umana, che è quella che riguarda gli affetti e la
ricerca del senso della vita, una ricerca che va oltre gli angusti confini del
nostro Ego per avventurarsi nel mondo sconosciuto della relazione autentica con il mondo.
domenica 9 dicembre 2012
L'Albero di Natale come simbolo di crescita personale
E così si avvicina un nuovo Natale, una festa che
per ognuno di noi costituisce un momento importante per la sua atmosfera
speciale e per gli aspetti affettivi ed emotivi che vi sono associati.
Due sono gli ambiti di vita ai quali questi aspetti
si intrecciano, uno è quello sociale e l’altro quello individuale.
Al primo appartiene la “celebrazione” di questa
festività, che coinvolge le famiglie nella loro interezza, le cene ed i pranzi,
le grandi abbuffate, come anche la celebrazione fra amici (merito anche delle
ferie) alle partite a carte o tombola o altri giochi da fare in compagnia. A
questo primo ambito appartiene però anche la forte connotazione “commerciale”
del Natale, quella fatta di panettoni, settimane bianche, luci splendenti e
regali più o meno costosi ed a questo livello si inseriscono anche quelli che
sono gli elementi “nevrotici” di questo periodo. In effetti è proprio “dentro”
questo aspetto del Natale che troviamo lo “stress da regalo” ma anche la
sofferenza psicologica; come sempre i dati confermano che in questo periodo
aumentano ansia e depressione e che queste a volte sono legate all’”obbligo” di
vivere bene e felicemente queste festività anche se ciò non corrisponde allo
stato d’animo; e da qui ecco che si ripropongono conflitti familiari che non
possono essere espressi (pena sensi di colpa verso gli altri componenti della
famiglia), ecco che ci si sente inferiori perché non si hanno abbastanza soldi
per i regali o per i festeggiamenti e così via….
Quello che si può pensare è che queste difficoltà
appartengano comunque alla vita quotidiana e non possono essere eliminate come
il “buonismo” natalizio vorrebbe; ma allora, visto che le nevrosi “festive”
sono a loro modo “naturali” dove risiede l’errore? Perché ci si sta male il
doppio?
Forse perché i due ambiti di cui sopra sono troppo
divisi fra di loro, perché non bisogna dimenticare che esiste anche l’aspetto
“individuale” del Natale, quello che simboleggia la rinascita di una luce dentro
di sé (rappresentata in particolare dal Presepe), il motivo del nome stesso di questa festa, “Dies natalis Solis Invictus”
ossia il giorno della nascita del sole vittorioso, la rinascita della luce
nuova, appunto; e nel nostro caso una luce che appartiene a se stessi soltanto.
Natale quindi non è solo una festa da passare
insieme ma anche un momento che rappresenta un cambiamento “dentro” l’individuo
stesso e da vivere solo per se stessi.
Per esempio Jung ci dice che l’Albero di Natale è
simbolo del “Processo di Individuazione”, un processo di crescita personale che
riguarda il proprio sé, e non il clima esterno, le relazioni affettive o le
dinamiche sociali.
Riguardo all’Albero di Natale diceva Santa Teresa
d’Avila: “…l’albero della vita mi è rifugio, nel pericolo esso mi
protegge…l’albero è la scala di Giacobbe in cui gli angeli salgono e scendono,
e alla sommità della quale risiede il Signore..” oppure ancora il Beato Filippo
Luigi Casati: “…l’albero della nascita divina si eleva verso il centro del
cielo e della terra…..fissato dai chiodi invisibili dello spirito per non
vacillare nel suo avvicinamento al Divino.”
Quindi l’Albero di Natale è simbolo di un percorso
individuale che riguarda essenzialmente se stessi e che non dipende dalle
relazioni con gli altri perché basta a se stesso, perché rappresenta una
rinascita personale ed indipendente che si eleva sopra la solitudine interiore
ed alza lo sguardo a cercare il proprio sole nuovo (oppure la stella cometa).
Ecco cosa dice Jung in proposito in una intervista
del ’57:
“…l’albero decorato ed illuminato, si ritrova anche
indipendentemente dalla natività di Cristo e anzi in contesti non cristiami.
Per esempio nell’alchimia…….il significato dei globi lucenti che appendiamo
all’albero di Natale non sono altro che i corpi celesti, il sole, la luna, le
stelle; l’albero di Natale è l’albero Cosmico. Ma, come mostra chiaramente il
simbolismo alchemico, è anche un simbolo della trasformazione, un simbolo del
processo di autorealizzazione. Secondo talune fonti… l’adepto si arrampica
sull’albero: un motivo sciamanico antichissimo. Lo sciamano, in stato estatico,
sale sull’albero magico per raggiungere il mondo superiore, dove troverà il suo
vero essere. Arrampicandosi sull’albero magico, che è al tempo stesso l’albero
della conoscenza, egli si impossessa della propria personalità spirituale. Allo
sguardo dello psicologo, il simbolismo sciamanico ed alchemico è la
rappresentazione in forma proiettiva del processo di individuazione. Come
questo poggi su base archetipica è dimostrato dal fatto che i pazienti del
tutto privi di nozioni di mitologia e di
folklore producono spontaneamente immagini incredibilmente simili al simbolismo
dell’albero storicamente attestato.”
E conclude dicendo che “l’albero di Natale è una di
quelle antiche usanze che nutrono l’anima, che nutrono l’uomo interiore.”
Quindi è importante capire che il Natale oltre a
rappresentare l’amore che circola in funzione della buona relazione con gli
altri simbolizza anche il momento della buona relazione con se stessi. Capendo
questo si diventa più forti di fronte all’irruzione di ansia e tristezza
natalizie che entrano meno in contrasto con le aspettative di gioia che il
Natale produce.
In sintesi, si può essere “anche” in compagnia di
se stessi senza sentirsi troppo soli ed i problemi di cui si parlava sopra
possono essere affrontati con maggiore forza. Allora l’albero diventa la
“scala” per raggiungere un nuovo livello di consapevolezza, un nuovo senso che
sia innanzitutto un nuovo “senso di sé” e così, con nuove energie, possiamo
davvero donare qualcosa agli altri e vivere con loro la gioia del Natale.
domenica 2 dicembre 2012
Siamo ancora capaci di "perderci"? Riflessioni sul tempo "perso"
Una non troppo vecchia pubblicità di automobili chiedeva
al telespettatore se fosse ancora capace di “perdersi”, in effetti al giorno d’oggi questa domanda appare
tutt’altro che banale.
La nostra si è trasformata in una cultura della fretta, corriamo sempre,
per andare al lavoro, per tornare a casa, per accompagnare i figli da qualche
parte….corriamo anche quando dobbiamo farci una vacanza “rilassante”, da un
monumento all’altro, da un locale all’altro, durante il week-end facciamo la “movida” (termine sicuramente
emblematico).
Ma tutto questo movimento non corrisponde a sua
volta ad un “perdersi”?
Dipende da cosa si intende con questo termine. Se
perdersi equivale ad essere disorientati
nella vita allora, si, sicuramente ci perdiamo spesso a fare cose la cui
reale necessità appare dubbia. Ma se perdersi equivalesse, al contrario, ad un lasciarsi andare a se stessi, ad
aspettare che si creino delle esigenze reali, fossero esse concrete o “dell’anima”, allora di questo oggi
siamo meno capaci che mai.
È il famoso contrasto
tra mondo esterno e mondo interno; equivale al chiedersi se le nostre
azioni siano dettate da motivazioni personali o da esigenze esterne a noi,
ossia dall’influsso sociale.
A ben guardare il nostro essere persi nel mondo
corrisponde spesso ad un tentativo di riempire
i “buchi” della vita; fino a che corriamo dietro alle centomila cose da
fare non abbiamo il tempo di pensare a noi stessi, non abbiamo tempo di “prenderci il tempo”; ma basta un fine
settimana durante il quale non ci siamo organizzati a fare qualcosa di
specifico (fosse solo seguire il calcio) che ci sentiamo veramente “persi”, non
sappiamo cosa fare, ci annoiamo.
In questo senso il termine “prendersi il tempo” è
molto significativo, indica una posizione
“attiva” nei suoi confronti.
Cercare di “riempirlo”
è un modo come un altro per significare che ne abbiamo paura e che quindi ci
limitiamo a “subirlo”, in sintesi
assumiamo nei suoi confronti una posizione passiva, finiamo per esserne
determinati, facciamo le cose per evitare di confrontarci con i tempi morti.
Al contrario allora prendersi il tempo corrisponderebbe ad un atteggiamento attivo, creativo; per esempio accettare la noia ed
aspettare che si trasformi in qualcosa oppure in niente, in questo modo i “tempi morti” vengono accettati e ci si
confronta con loro alla pari, il tempo magari trascorre “vuoto” ma non provoca
sensazioni di disagio.
Winnicot, un famoso psicanalista del passato, affermava
che il contrario di esistere non è
“non esistere” ma bensì “reagire”;
se ogni volta che facciamo qualcosa è solo come reazione a qualcos’altro vuol
dire che non esistiamo per noi stessi
ma che facciamo le cose in reazione a conflitti (con il mondo o con noi stessi)
con i quali combattiamo le nostre personali guerre; questo significa che determiniamo quello che siamo
esclusivamente in confronto con qualcosa di altro, dimenticando di guardare
ciò che siamo davvero nel nostro profondo. È ovvio che entrambi gli
atteggiamenti sono necessari, ma non dovrebbero mai essere sbilanciati troppo a
lungo.
Il nostro perderci oggi corrisponde al continuo cercare alternative per riempire
momenti vuoti, noi non ci perdiamo
mai realmente, lasciandoci andare a quello che capita, noi in realtà abbiamo
già molte alternative da attivare; la noia non fa in tempo ad arrivare che già
sappiamo cosa fare, come “reagire”
ad essa.
Da un punto di vista psicopatologico finiamo per
soffrire di continua ansia anticipatoria,
ossia la paura per quello che succederà, al cui fondo c’è sempre la paura del vuoto. Oggi la nostra è
definita una società ansiosa ma a ben guardare forse bisognerebbe chiedersi se
non sia una società depressa.
L’ansia infatti va spesso a “braccetto” con la
depressione, è lo “psicofarmaco” più utile (ed utilizzato) contro il senso di
vuoto, ossia la depressione. Questo significa che abbiamo paura di noi stessi e di ciò
che ci alberga dentro, e che non vogliamo vederlo; la depressione, almeno nella sua forma reattiva, secondo qualcuno può
essere una reazione a questa poca attenzione a sé, un tentativo estremo che la nostra psiche fa per farci confrontare con i nostri aspetti inconsci, tra cui le
nostre necessità più profonde alle quali non diamo attenzione.
Senza voler davvero andare così lontano basti
pensare che la noia per esempio è anche una possibilità creativa, nel
suo manifestarsi crea la frustrazione, l’insoddisfazione,
che ci costringe a trovare soluzioni alternative; in questo senso basta
guardare i bambini ed i giochi che si inventano quando non sanno cosa fare, i
giochi più strani ma anche i più divertenti. E questo è molto diverso
dall’avere una soluzione già pronta, ha il sapore del “sorprendendente”, quante volte ci scopriamo o ci siamo scoperti a
divertirci più del solito, magari con il partner oppure in famiglia o con gli
amici, proprio nelle situazioni noiose? Questo perché le soluzioni che emergono sul momento sono più significative, parlano di quello che siamo in quel preciso
momento della vita, al contrario delle alternative che vengono preparate in
anticipo ed appaiono vuote di senso.
Allora diventa sempre più importante oggi riuscire
a perdersi davvero, con consapevolezza e
tranquillità, e lasciarsi andare al momento, un momento che più di ogni
altro ci parla di quello che siamo ora e ci fa sentire profondamente dentro noi
stessi, e ci può aiutare più di qualunque altra cosa a conoscerci o
riconoscerci per la nostra speciale unicità.
sabato 24 novembre 2012
Aggressività vs Assertività (2): Esprimersi con sicurezza
Quante volte pur avendo ragione si finisce dalla parte del torto? A
volte succede che nonostante le nostre opinioni siano corrette non riusciamo a
difenderle, e questo perchè non riusciamo ad esprimerle nella forma più
adeguata; può capitare che ci arrabbiamo troppo rischiando di passare per
persone impulsive ed aggressive (nonostante, magari, ci
stiamo solo difendendo) oppure ci dimostriamo insicuri, incerti in quello che affermiamo, dando all’altro la
possibilità di dubitare di noi e delle nostre affermazioni.
Per poter esprimersi con sicurezza ci viene in
aiuto quella che gli psicologi chiamano assertività. Già il termine dà qualche spiegazione; dal latino “ad serere”, condurre a sè, e da qui “asserire” ed asserzione, affermazione
di sè, caratteristica del comportamento umano che consiste nella capacità
di esprimere in modo chiaro ed efficace
le proprie emozioni ed opinioni.
Dimostrarsi assertivi significa sviluppare
alcune specifiche competenze tramite
le quali si esprime il comportamento assertivo;
- Innanzitutto
essere capaci di dire No, senza
però svalutare l’altro o rifiutarlo. Questo significa riuscire a superare
la paura di poterlo ferire.
- Saper rischiare e saper
chiedere; in questo
modo ci si dimostra capaci di assumersi le responsabilità delle proprie
richieste e di comunicare agli altri le proprie aspettative anche se
questo può portare ad un conflitto; uno dei modi migliori per imparare a
rischiare in questo senso è fare richieste in maniera diretta, evitando giustificazioni, e poi riflettere
su quali risultati si sono ottenuti per poter eventualmente modificare la
modalità.
- Saper criticare; questo significa passare da
una modalità esclusivamente “giudicante” ad una più “osservante”, giudicare non tanto la persona quanto la
situazione o il comportamento dell’altro ed esprimere il giudizio come una opinione personale piuttosto
che “assoluta”.
- Saper rispondere alle critiche, accettando gli eventuali
errori commessi ed imparando da essi.
- Saper decidere e realizzare
obiettivi concreti, ossia
legati alla consapevolezza dei propri limiti e delle reali potenzialità.
- Saper perseverare, senza perdersi troppo d’animo
se non si è riusciti a realizzare degli obiettivi ma cercando comunque di
migliorarsi per la prossima volta (nel tentativo di migliorare noi stessi
non ci deve “correre dietro” nessuno!).
Queste sono, per così dire, le “evidenze” comportamentali di un “pensare”
assertivo, ossia di un lavoro sui pensieri appunto, che comporta l’abbandono delle convinzioni svalutative
su noi stessi, che spesso sono legate al nostro passato ed a vecchie
esperienze, magari dolorose, dalle quali non riusciamo a separarci. Oltre
all’area comportamentale e cognitiva però va considerata anche quella emotiva;
è fondamentale conoscere cioè le proprie
emozioni, senza giudicarle, perchè solo così facendo perdono il loro carattere “travolgente” e
possono diventare gestibili.
In sintesi si potrebbe dire che al fondo
dell’assertività si cela la consapevolezza
di sè, innanzitutto del proprio stile
comunicativo, sia esso aggressivo o anassertivo-passivo, che va accettato
(come vanno accettate le esperienze passate alla base dei pensieri svalutativi
di cui sopra). Ancora è importante lavorare sulla consapevolezza di quella che
Jung chiamava Ombra, ossia tutto ciò
che non ci piace di noi stessi, che non vorremmo vedere o che abbiamo rimosso nell’inconscio; in questo modo ci sentiremo
liberi di dare maggiore spazio ai nostri
bisogni ma anche ai nostri sogni,
ai pregi come ai difetti, dando voce
alla paura, alla rabbia e ad ogni altro desiderio che non abbiamo il
coraggio di pensare.
Fatto questo diventa possibile agire il cambiamento, provando a
modificare concretamente i nostri comportamenti assumendoci con coraggio le rispettive
responsabilità, iniziando da
modifiche in quelle aree della nostra esperienza che ci garantiscano un buon
margine di successo, per poi muoverci gradualmente verso aree più “rischiose”.
Per ultimo, ma probabilmente è l’elemento più
importante, non bisogna dimenticare che l’assertività
è il mondo della libertà di scelta e questo significa che non è possibile
nè utile essere sempre assertivi, perchè si finirebbe in un corpo a corpo con
le pulsioni e gli istinti più profondi da cui non si può uscire vincitori usando la razionalità; quindi è
necessario dare spazio a tutto ciò che di irrazionale alberga in noi potendo
però decidere come, quanto e quando esprimerlo….e questo vuol dire decidere come, quanto e quando essere
assertivi e quando invece dare spazio a quel briciolo di follia che alberga
in tutti noi e che sta alla base della creatività.
martedì 20 novembre 2012
Bambini nella guerra: il trauma e le sue conseguenze
In questi giorni
l’UNICEF è intervenuto sulla situazione di conflitto tra Israele e Gaza
dicendosi “ profondamente preoccupato” per il suo impatto sui bambini. L’infanzia dovrebbe essere
dedicata alla libera e tranquilla sperimentazione di sè e del mondo, ma come è
possibile sperimentare con serenità ed apprendere di conseguenza quando si vive
una perenne allerta ed un continuo rischio di perdere la vita o qualcuno dei
propri familiari?
A ieri risultavano
almeno 18 i bambini palestinesi che hanno perso la vita; svariati bimbi
feriti anche tra gli israeliani. Enormi sono i problemi nella striscia di Gaza
soprattutto per la carenza della situazione sanitaria ed il lancio di razzi
continua indiscriminato su entrambi i fronti; questa situazione sta mettendo a
rischio i bambini ambo le parti lasciandoli esposti a danni fisici e
psicologici.
Di nuovo, quindi, si
tende a dimenticare i diritti dei minori che vengono regolarmente subordinati
ad interessi di parte mai ben specificati. Eppure vivere perennemente in
guerra è una esperienza traumatica ripetuta che lascia profondi segni se non
nel corpo sicuramente nella mente, e lascia una seria ipoteca sulla
possibilità di uno sviluppo sano di questi bambini.
Le conseguenza di
questo “disastro” sono tanto emotive quanto cognitive.
Per esempio la
psicologia ci dice che tra i 4 e i 6 anni avviene la cosiddetta “regolazione
delle emozioni”, infatti in questo periodo i bambini vengono incoraggiati a
controllare gli scoppi di rabbia ed imparano a rispettare i loro compagni; in
definitiva diventano capaci di riconoscere il valore dell’altro ed a mediare
in caso di conflitto. Questo avviene perchè l’ambiente sociale e culturale
inizia ad influenzarli; cosa può avvenire nel caso che l’ambiente intorno a
loro è un ambiente di guerra? Chi può insegnare loro che gli scoppi di
aggressività incontrollata sono pericolosi? Pare infatti che i bambini che sono
vissuti in prolungate situazioni di conflitto manifestino da grandi comportamenti
maggiormente aggressivi e che l’impulsività diventa un atteggiamento comune.
La tendenza può essere quella a trasformare I sentimenti e le tensioni
direttamente in “azioni” irriflessive, dimostrando una mancanza di capacità di
trasformare le emozioni e gestirle. In sintesi tanta è la paura che si
ripropongano vissuti traumatici come quelli dell’infanzia che i comportamenti
sono sempre di allontanamento dal pericolo, come se nella mente si fosse creato
uno schema di autoprotezione che si è congelato e si manifesta in maniera ripetitiva ed
automatizzata, quindi senza possibilità di riflessione o mediazione razionale.
Laddove
l’affettività appare lesa si provoca un blocco di tipo cognitivo. La possibilità di
apprendere competenze “razionali” si basa su una buona base emotiva che in
questi casi può essere mancante perchè messa a rischio dalla guerra. Pare che
l’esposizione al trauma renda i processi di pensiero e mnemonici “parziali”
ed appunto “rigidi” e “ schematici”, diminuendo la capacità di
attenzione e concentrazione. Come conseguenza la capacità di apprendere
diminuisce provocando senso di depressione e fallimento in questi bambini,
creando un circolo vizionso che porta ad un ulteriore aumento dello stress
fornendo un ulteriore rischio per la loro salute mentale.
In via generale
esistono dei fattori protettivi che possono aiutare ad elaborare positivamente i
vissuti traumatici, e sono le relazioni familiari e quelle sociali più in generale.
Anche qui però esiste il rischio che il vissuto traumatico stesso “alteri” la
qualità di queste relazioni; pare infatti che i bambini palestinesi esposti ad
elevati livelli di trauma da guerra riportino una minore qualità nelle amicizie
ed una maggiore conflittualità tra fratelli. Già da quanto detto appare come le
situazioni familiari stesse di questi bambini non possano più di tanto aiutarli
a “reggere” il trauma che rappresenta un enorme fardello per i genitori
stessi. Per esempio sembra da alcuni studi effettuati che i genitori del medio
oriente vivano dei forti sensi di colpa dal momento che non si sentono nella
possibilità di garantire una sicurezza di base ai loro figli; infatti il
compito principale dei genitori è proprio quello di proteggere I figli dal
pericolo e dalle situazioni stressanti e quindi avere bambini vittime di
traumi causa impotenza e senso di fallimento. Il problema è che i bambini a
loro volta sono fortemente influenzati dallo stato d’animo dei genitori e
quindi anche in questo caso finisce per strutturarsi una sorta di circolo
vizioso in cui i figli soffrono perchè leggono la paura negli occhi dei
genitori che a loro volta individuano lo stesso sentimento nei figli e si
sentono ancora più in colpa. Quanto sia importante la sintonizzazione
emotiva
tra genitori e figli può essere spiegato partendo dalla relazione primaria
madre-bambino; il bambino già appena nato è capace di registrare lo stato
d’animo della madre e le sue espressioni facciali; immaginiamo cosa può
succedere quando un neonato legge lo sconforto e la paura nello sguardo materno. In questi casi i
bambini reagiscono in due modi, entrambi non funzionali ad un adeguato
sviluppo; da un lato possono “iper-attivarsi” diventando agitati e provocando
anche delle alterazioni fisiologiche nel loro corpo, come l’aumento del battito
cardiaco; dall’altro possono reagire con il ritiro dal mondo esterno,
isolandosi e smettendo di cercare comunicazione con le figure di attaccamento.
Questo tipo di esperienze poi si stabilizzano nella cosiddetta memoria
implicita, ossia quella che non può essere rievocata coscientemente ma che lascia
tracce in tutto il comportamento.
Questo non vale
comunque solo per il neonato, perchè anche i bambini più grandi si aggrappano
ai genitori per essere protetti, e nelle situazioni di guerra vivono nel
terrore costante che possa accadere qualcosa di grave ai membri della propria
famiglia; come si può crescere bene con la costante preoccupazione di
perdere il proprio padre o la propria madre, quando non addirittura la propria
vita?
Lo scenario che si
disegna leggendo questi dati è davvero preoccupante; rappresenta un quadro in
cui il bambino si trova chiuso in una spirale di paura dalle quale non gli è
possibile uscire perchè le uniche vie di fuga, le relazioni familiari e
sociali,
sono a loro volta compromesse e “traumatizzate”. Uno scenario dove esiste solo
una eterna, angosciante attesa del prossimo bombardamento, dove passa anche la
voglia di sopravvivere.
E (mi scuso per il
pensiero banale) nonostante ciò le guerre continuano indiscriminatamente per
interessi sempre poco chiari.
La cosa più
paradossale che a lanciare razzi sono proprio i genitori di questi bambini, i
loro fratelli, ossia proprio coloro che dovrebbero difenderli; ma forse è
proprio nell’illusione di dare loro un futuro più sicuro che lo fanno……….perchè
se la situazione continua così da anni vuol dire che c’è in gioco qualche
motivazione profonda radicata nell’anima. Spesso le guerre tra popoli non
sono altro che tentativi di distruggere e negare l’esistenza degli “altri”, di
altri che creano paura, che sono visti come una minaccia per la propria
esistenza;
ed è proprio questo che sta accadendo tra Israeliani e Palestinesi…..e
purtroppo fino a che le due parti non decidono di accettare l’una l’esistenza
dell’altra la guerra continua….indifferente ai bisogni dei più piccoli e,
paradossalmente, proprio nel pensiero delirante che sia tutto per garantire
loro un futuro più sicuro.
venerdì 16 novembre 2012
Piccoli bambini per grandi bugie: come reagire di fronte alle bugie dei piccoli
Un bambino all’età di
2/3 anni è capace di dire davvero delle grandi fandonie; può incolpare di un
suo misfatto il fratellino o la sorellina appena nati (e che ancora non sanno
neanche camminare) o il cane (che però magari non entra mai in casa), può dire
con la massima sicurezza di aver visto un coccodrillo al supermercato…..ma sono
bugie innocue, trasparenti, un gioco con la fantasia. A partire dai 6 anni le
cose cambiano, cambia il bambino e cambiano le sue bugie, proprio come lui
diventano più furbe, e anche più intenzionali; intorno a questa età si comincia
a distinguere più chiaramente il vero dal falso, ed a riconoscerli, e quindi
solo a partire da qui si può parlare davvero di bugie nell’accezione che
intende un adulto. La principale differenza è che ora sa di mentire mentre
prima era lui stesso il primo a credere alle sue “assurdità” ed a stupirsi che
gli altri non lo facevano; questo perchè la differenza tra realtà e fantasia
era meno chiara, se negavano di aver fatto un danno è perchè desideravano
davvero non averlo fatto, e pensavano che negandolo avrebbero potuto in qualche
modo modificare il passato. Quando crescono iniziano a rendersi conto che non è
più sufficiente negare ciò che è accaduto per trasformarlo; nonostante questo
però possono continuare a farlo e se la cosa assume una rilevanza “massiccia”
diventa un problema.
Un esempio può essere
quello dell’accusare altri per ciò che lui ha fatto; come già detto fino ad una
certa età è naturale, in questo modo il bambino si libera del “bambino cattivo”
che c’è dentro di lui. Comunque nel tempo inizia a conoscere ed accettare anche
questa parte “negativa” di sè e piano piano ad assumersi le sue piccole
responsabilità, tutto questo perchè inizia a sentirsi più sicuro di sè, e ad
acquisire maggiore fiducia nelle sue capacità, tra cui, appunto, quella di
sopportare eventuali giuste punizioni e la capacità di ridimensionare le sue
colpe, che fino ad ora poteva apparirgli enormi anche se erano bazzeccole agli
occhi degli adulti.
Se questo
comportamento continua (in maniera esagerata) indica che il bambino non riesce
ad accettarsi, che ha paura della sua cattiveria e che non riesce a gestirla,
che è troppo intransigente con se stesso; questo atteggiamento può comunque
essere risultato di uno stile educativo troppo intransigente a sua volta; se
per esempio il bambino viene giudicato troppo severamente la bugia si trasforma
in una difesa dalla paura di deludere mamma e papa…fissandosi stabilmente nel
comportamento. Inoltre può portarlo all’abitudine di dare la colpa agli altri,
cosa che risulterà controproducente anche alla sua socializzazione visto che
per salvare se stesso finisce per “colpire” gli altri.
In questi casi è
importante non essere troppo duri e severi nel giudicare le bugie, gli vanno
fatte notare senza infierire, facendogli capire che non è la fine del mondo ma
anche che non è giusto incolpare altri per i propri errori. Gli si può chiedere
qualche spiegazione per il suo comportamento lasciandogli però qualche “via di
fuga”, magari accettando qualcuna delle sue giustificazioni. Così facendo lo si
aiuta a ristrutturare la stima in se stesso che probabilmente è venuta a mancare.
Comunque anche dopo i
6/7 anni i bambini possono continuare a dire bugie per cercare di modificare la
realtà tramite il cosiddetto “pensiero magico”; non si limitano a fantasticare
ma trasformano i loro desideri in racconto, per esempio tendono ad esagerare
qualche loro impresa o le condizioni socio-economiche della famiglia; in genere
enfatizzano elementi di verità. Il motivo di questa megalomania è che il bimbo
cerca di contrastare il suo essere “piccolo” usando il senso di onnipotenza.
Fino a qui tutto normale, ma sulla scia della fantasticheria e dell’onnipotenza
può anche emergere un forte bisogno di autoconsolazione dal sentirsi poco amati
o poco apprezzati. A volte infatti questo tipo di bugie può segnalare uno stato
di disagio che viene appunto trasformato in fantasia, per esempio raccontare di
aver passato delle fantastiche feste in famiglia mentre magari nella realtà I
genitori stanno separandosi, oppure di aver avuto un bellissimo voto a scuola
quando invece è vero il contrario. In questo caso per il bambino è difficile
sopportare la frustrazione ed il dolore, che spesso sono davvero troppo per
lui, e così facendo prova a negarli e spera che raccontando cose belle queste
potranno davvero realizzarsi.
Anche in questo caso
non serve riprendere duramente il bambino, anzi è necessario comprenderlo ed
aiutarlo a capire che non è possibile cambiare la realtà di punto in bianco in
modo “magico” ma che serve tempo per farlo; l’attenzione va posta non tanto sulla bugia quanto sul
tentativo di accettare le sofferenze del bambino, il suo possibile senso di
inferiorità o le sue paure.
Comunque al di là di
queste particolari situazioni per evitare un eccesso di bugie è importante che
i genitori siano esempio di sincerità.
Per esempio se chiede
di cose che non può ancora sapere è sufficiente dirgli chiaramente che non sono
cose che devono interessarlo piuttosto che raccontargli una falsa verità.
Inoltre è importante mantenere le promesse; in caso contrario il bambino si
sente ingannato, quindi è meglio essere il più chiari possibile piuttosto che
trovarsi poi a non mantenere ciò che si è promesso.
Inoltre i bambini
possono perdere fiducia nel genitore anche quando non mente direttamente a loro
ma ad altri, magari coinvolgendoli nella bugie (per esempio farsi negare al
telefono!). E’ ovvio che non si può essere sempre sinceri neanche (e
soprattutto) tra adulti, però in questi casi è meglio ammettere che anche gli
adulti mentono oppure che a volte alcune bugie possono essere necessarie, per
esempio per non far soffrire gli altri o per non complicare i rapporti, magari
non tanto “falsando” ma “ammorbidendo” la verità.
Per evitare che la
bugia si stabilizzi come forma di difesa è necessario non dimostrarsi troppo
intransigenti. Anzi, c’è da dire che la bugia è anche segno di autonomizzazione
del bambino, per esempio a partire dai 5/6 anni iniziano i primi segreti, a
volte protetti proprio da qualche bugia, che però indicano che è avvenuta una
separazione e che il bambino ha strutturato la propria individualità ed il proprio
mondo interno e privato.
Infine è importante
evitare le confessioni a tutti i costi, sono dolorose per i bambini e li fanno
sentire esposti ed indifesi; se la bugia non viene ammessa in nessun modo
meglio non insistere troppo, se i motivi per cui non deve dirle gli sono chiari
il bambino non esagererà più.
Comunque bisogna
ricordare che tutti i bambini
mentono, è inutile farne un dramma anzi ci sarebbe da preoccuparsi del
contrario; per dire una bugia, infatti, è necessario riuscire a comprendere come
l’altra persona pensa, quali cose si aspetta, quali sono le sue opinioni,
altrimenti si verrebbe scoperti facilmente; in questo senso la capacità di
mentire in maniera più “sottile” ci fa capire che il bambino è ora capace di
comprendere gli altri e di mettersi nei loro panni, consapevolezza fondamentale
per costruire le sue future relazioni.
sabato 10 novembre 2012
Aggressività vs Assertività (1): 3 stili comunicativi
Nei media l’aggressità
“fa audience” e questo significa che in qualche modo ci affascina, forse perchè
in questo modo vediamo e ascoltiamo un modello
comunicativo che nella vita di tutti i giorni non ci permetteremmo di
attuare pur magari desiderandolo. Ma
alla fine questo modello non è l’unico, la psicologia ci dice infatti che
esistono anche il modello anassertivo
(più passivo) e quello assertivo (il
più efficace tra i tre).
Si! L’aggressività in TV ci piace, ci piace
vederla, ci piace ascoltarla, e questo nonostante tendiamo a considerare
sgradevoli le persone che la utilizzano per far valere il proprio punto di
vista, ma perchè?
Innanzitutto perchè le persone aggressive
appaiono “vincenti” rispetto ad altri, nonostante spesso si muovano sul filo
della prevaricazione; secondariamente perchè ci permettono di proiettare i nostri stessi desideri di
vittoria o di prevaricazione.
In effetti l’aggressività è un retaggio della
specie, propria cioè dei nostri progenitori che vivevano nelle caverne e che
proprio grazie ad essa si procuravano il cibo o difendevano il clan. Quindi in
sè per sè non ha nulla di
particolarmente deplorevole, la differenza con quanto accade oggi è che
queste necessità primarie (fortunatamente) sono meno impellenti; almeno nel
nostro mondo occidentale non dobbiamo (quasi più ) lottare per mangiare o per difendere la nostra vita o quella dei
familiari. La conseguenza di questo è che spesso tutta questa aggressività
appare fuori luogo.
Nonostante ciò ci troviamo comunque molto spesso
a dover difendere una nostra opinione
oppure una nostra idea, vuoi che sia un progetto o un modo di essere; è proprio
in questi casi che ci piacerebbe riuscire ad imporci ma a volte non ci riusciamo
(per paura di perdere una relazione o magari il lavoro) e tendiamo ad assumere
un comportamento che gli psicologi chiamano “anassertivo” ossia passivo, in sintesi tendiamo per buona pace a trascurare i nostri bisogni di fronte a
quelli altrui.
Fino a qui ci stiamo confrontando con una
dinamica del tipo “vittima-carnefice”; ma allora com’è che riusciamo a non annullarci l’un l’altro? Questo è
possibile perchè esiste anche una terza
via, che è quella dell’assertività,
ossia la capacità di esprimere se stessi e le proprie opinioni senza
prevaricare gli altri; per capire meglio può essere utile mettere a confronto
gli “stili comunicativi” che
emergono da queste tre tipologie di comportamenti.
- Lo stile aggressivo si caratterizza
per comportamenti improntati al dominio
ed alla prevaricazione degli altri senza tenere conto di quello che
pensano o provano; il risultato è che l’altro finisce per “chiudersi” e
comportarsi passivamente oppure,
viceversa, che reagisca a sua volta aggressivamente generando una spirale
di violenza. In realtà la persona aggressiva non è realmente forte o
sicura di sè, tutt’altro, è in realtà incerta ed ha una inconscia percezione di debolezza;
si potrebbe dire che aggredisce per non essere aggredita spesso per
evitare di provare paura.
- All’opposto
abbiamo lo stile anassertivo,
che si manifesta con comportamenti
passivi ed inibiti e con la tendenza a non esprimere il proprio punto
di vista per non inimicarsi gli altri. In genere questo è un modo per non
perdere delle relazioni importanti e per evitare che venga ferita la
propria autostima. Il rischio è che si può soffrire molto, diventando
ipersensibili alle critiche fino a non riuscire a reggere neanche battute
del tutto innocue. Spesso queste persone stabiliscono dei rapporti di dipendenza dagli
altri, e per non perderli tendono a compiacerli non esprimendo le proprie
opinioni.
- La
terza via è appunto quella dello stile
“assertivo”, che invece si caratterizza per la capacità di esprimere i propri desideri ed i
propri punti di vista mantenedo comunque il rispetto per gli altri e per i loro desideri e diritti; in
questo senso la persona assertiva è disposta a negoziare senza rinunciare a farsi valere, magari aspettando
un momento migliore per esprimersi senza però trascurare di far valere, anche
se in un momento diverso, la propria opinione.
Da quanto esposto si evince che lo stile di
comunicazione assertivo sarebbe quello migliore dei tre….ma è anche vero che
non è sempre semplice da applicare, si basa infatti su dei prerequisiti a loro volta abbastanza impegnativi:
- Stima di sè, ossia la capacità di credere
nel proprio valore in maniera obiettiva, senza idealizzazione, che vuol
dire basarlo su ciò che si è piuttosto che su ciò che si riesce a
realizzare o ciò che si “fantastica” di realizzare, significa saper vivere
nel presente e giudicare non tanto le persone quanto le situazioni;
- Consapevolezza di sè, ossia la capacità di
ascoltare le proprie emozioni, i propri desideri, e di accettarsi nei
propri difetti pur cercando di migliorarsi;
- Sentimento
del potere a somma variabile,
ossia la capacità di apprezzare il valore altrui nel momento in cui si è
in conflitto, di accettare le opinioni dell’altro pur non condividendole;
vuol dire riconoscere i conflitti sforzandosi di collaborare piuttosto che
vincere;
- Saper comunicare ed esprimere le proprie
emozioni ed i propri sentimenti, senza per questo sentirsi più deboli
bensì liberi di esprimere la propria autenticità.
Detto questo l’assertività non è semplice da
applicare, ed in effetti non ci riusciamo sempre, e questo è anche un bene; non bisogna pensare che assertività sia
sinonimo di perfezione, è anzi vero il contrario, è accettazione della proprio umanità, delle proprie debolezze e dei
propri difetti, anzi si può dire che senza questi non esisterebbe proprio,
esisterebbe solo l’onnipotenza.
Essere assertivi significa in fondo sentirsi
liberi di essere se stessi nella propria autenticità, significa poter sbagliare
ma anche (e soprattutto) trovare il modo per ammetterlo per poi cercare di
riparare all’errore; allora si può anche essere aggressivi a volte, altre si
può chinare il capo, magari per non far del male agli altri, senza perdere però
di vista i propri valori profondi e
cercando di applicare il più possibile il rispetto
per gli altrui diritti………continua...
sabato 3 novembre 2012
Perchè è importante giocare con i figli
Questa idea però non è corretta; basti pensare che
è proprio tramite l’attività di gioco
che tanto il bambino quanto l’adulto imparano a gestire le proprie emozioni;
pensiamo per esempio all’aggressività che può essere agita “come se” fosse vera e quindi liberata in maniera inoffensiva.
In questo senso il gioco diventa un modo adeguato
per scaricare energia in eccesso, ma la sua utilità non si limita a questo. Pensando al rapporto genitori-figli
l’attività ludica diventa una possibilità di confronto, giocando il bambino
impara qualcosa in più sui propri genitori, li osserva e studia le loro
espressioni, i loro movimenti (ed è per questo che sono perfettamente in grado
di capire se il papà o la mamma stanno giocando solo per farlo contento oppure
perché ne hanno veramente voglia; quindi è inutile cercare di imbrogliarli!) ed
in questo modo misura le sue “forze” ed impara a comprendere quale è il suo ruolo nella famiglia, quello del
bambino appunto. Infatti a partire dai 3 anni circa il bambino più che vincere
preferisce confrontarsi con la perdita
( non è più utile farlo vincere per forza) e fa esperienza del fatto che il
suo, in famiglia, è il ruolo del “piccolo”, che i genitori sono più forti ( e
aggiungo che proprio per questo gli danno sicurezza) e così facendo inizia a confrontarsi con la realtà “vera” dalla
quale non si può uscire sempre vittoriosi. Inoltre nel confronto inizia appunto
a “studiare” i genitori ed in questo modo ad imitarli, gettando le basi per l’identificazione con i padre o la madre.
A questo punto va precisato che il gioco
acquisisce un valore affettivo sempre diverso a mano a mano che il bambino
cresce:
- Fino al primo anno di vita l’attività
ludica garantisce al bimbo le sensazioni (soprattutto corporee) che gli
permettono di esplorare se stesso ed il suo corpo ma anche quello della
madre; i giochi infatti sono quelli del toccare il corpo della mamma o gli
oggetti che la mamma guarda, oppure, quelli di agitare braccia e gambe;
questa modalità permette al bambino di distinguere tra sé e “non sé”, tra sé e l’altro.
- Intorno ai 2 anni si aggiunge la possibilità
che qualche oggetto acquisisca un valore “transizionale” ossia di sostituzione della figura di
attaccamento nel momento in cui è concretamente assente. Nel tenere con sé
sempre lo stesso pupazzo o nell’accarezzare la copertina la sera, il bambino
dimostra di riuscire a sopportare l’assenza
della mamma; di nuovo il gioco lo aiuta a separarsi e distinguersi
dalle figure di riferimento.
- Intorno ai 3 anni inizia il gioco di socializzazione; il
bambino inizia a dimostrare attivamente il desiderio di giocare con gli
altri, in primis i genitori.
- Dai 4 anni il gioco assume pienamente
il suo valore simbolico, ossia
diventa un modo per esprimere il suo mondo
interno, le sue emozioni,
per discriminarle e riconoscerle.
- Dopo i 6 anni il gioco diventa pienamente
“sociale”; il bambino inizia a
giocare in gruppo ed in questo modo impara a stare con gli altri, a rispettare
le regole e le eventuali “penitenze”.
In sintesi il gioco svolge una doppia funzione nello sviluppo
evolutivo: da una lato consente al bambino di comprendere la realtà a lui
esterna e gli consente un buon adattamento; dall’altro lo aiuta a conoscere,
interpretare e controllare il proprio mondo interno fatto di desideri, pulsioni ed istinti.
Nel suo svolgersi il bambino può comprendere ed
interiorizzare ogni nuova esperienza ed ogni nuova acquisizione e diventa in
grado di interpretare i propri desideri ed iniziare a dar loro una forma di progettualità.
Il gioco è comunque (e per gli stessi motivi) fondamentale anche per l’adulto e nel
suo svolgersi diventa un vero e proprio “archetipo”
capace di organizzare l’attività psichica dell’uomo.
In molte mitologie sabato 13 ottobre 2012
Bambini contesi (nella società dell'immagine)
Aumentano le coppie in crisi e le separazioni, e spesso chi ne paga le maggiori conseguenze sono i figli. Emblematica in questi giorni la notizia del bambino preso
forzatamente all’uscita di scuola dal padre con l’appoggio delle forze
dell’ordine; di questo fatto sono girati dei video che tutti abbiamo avuto
occasione di vedere.
In seguito a tutto ciò sono piovuti giudizi da tutte le parti (penso in particolare a TV e giornali) giudizi leggeri ed affrettati, fatti più per fare notizia che per comprendere realmente la situazione.
Personalmente ho trovato questa sovraesposizione mediatica piuttosto spiacevole e di cattivo gusto; è davvero necessario che questo bimbo debba vivere con la consapevolezza che tutta l’Italia conosce la sua vergogna? (perché anche se lui non ha colpa la vergogna rimane sua, perché è un’emozione legata al corpo e non alla razionalità, e nella memoria corporea rimane) Ed inoltre: troviamo vergognoso che questo fatto si sia svolto in un luogo pubblico, di fronte ai compagni di scuola del bambino stesso e non, magari, a casa sua…….ma allora non è anche vergognoso che il video fatto col telefonino sia stato mostrato in tutte le case di tutte le famiglie ed a tutti i bambini che guardavano la televisione? Certo, dovere di informazione si dirà…..ma non si può informare senza per forza mostrare tutto, proprio tutto?
Il fatto è che oggi viviamo nella società dell’immagine, tutto deve essere visto per essere eccellente e fare notizia, non ci si può più limitare ad “ascoltare” una informazione come succedeva in passato.
Le immagini però possono essere pericolose, il nostro stesso inconscio comunica per immagini e sappiamo bene tutti quanto a volte siano difficili da dimenticare le immagini degli incubi. Già Jung distingueva due modi di pensare; uno per parole, direzionato, razionale ed argomentativo, ed un altro per immagini, associativo, emotivo e meno dispendioso. Da qui la pericolosità delle immagini; nel caso del fatto sopracitato l’immagine è così forte che impedisce di pensare razionalmente e di conseguenza libera le emozioni personali, diventa così facile esprimere indignazione o giudizi in maniera affrettata e superficiale, chi di noi infatti non sarebbe inondato dallo sdegno di fronte alla vista di un bambino trascinato per la strada…….ma questo modo di pensare potrebbe impedire di approfondire l’argomento, informarsi sulle ragioni di questa storia.
Allora cercando di passare ad un pensiero direzionato ci si accorge che la situazione di questa famiglia divisa è piuttosto complessa.
innanzitutto è necessario comprendere cosa accade, almeno a grandi linee, nelle coppie che si separano; due sono gli elementi che andrebbero analizzati: la crisi della coppia ed il “possesso” (mi si passi il termine) dei figli.
Il processo di separazione della coppia tira in ballo i processi di attaccamento; il legame diattaccamento tra coniugi ricalca in qualche modo il legame di attaccamento che si è avuto con i genitori e quindi è difficile da sciogliere e comunque sempre molto doloroso perché è all’origine dei sentimenti di stabilità e sicurezza di cui è difficile fare a meno di punto in bianco. Questo meccanismo ha ovviamente radici nella fisiologia del cervello (è legato alla produzione di endorfine, le sostanze che calmano la mente) e quindi una separazione comporta modifiche dell’umore e del comportamento; inoltre bisogna far scendere a patti l’emotività con la razionalità, cambiare abitudini e spesso modificare la propria personalità. A questo punto si può immaginare quanto questo percorso sia difficile e lungo, e come in realtà solo poche coppie riescano a viverlo fino in fondo. Come conseguenza si creano stati di rabbia e frustrazione, insoddisfazione e depressione che avvelenano quasi sempre le separazioni.
Da qui si può continuare analizzando il secondo elemento, il “possesso” dei figli, come dicevala Oliverio Ferraris
da questi ultimi non è infatti possibile divorziare. Così finisce che la
separazione o il divorzio alterano la vita affettiva dei bambini e scompigliano
le loro sicurezze; questi sono però vissuti normali in casi del genere e
possono essere affrontati bene dal bambino nel momento in cui anche i genitori
cercano di affrontare al meglio la separazione. Questo presuppone però un fatto
molto importante, ossia che i genitori siano capaci di distinguere se stessi
dai propri figli; in questo caso infatti sono capaci di pensare al bene dei
figli e di separarsi in maniera meno conflittuale possibile. Il problema sorge
all’opposto, quando non esiste distinzione e i figli sono visti esclusivamente
come parti di sé e non come individui separati.
È proprio in questo caso che possono diventare strumenti di rivalsa e vendetta nei confronti del coniuge, oppure possono essere utilizzati come strumenti di sostegno, oppure come dei piccoli mediatori. Ovviamente questo non significa che i padri e le madri siano dei mostri, il fatto è che i bambini stessi per cercare di mantenere l’affetto di mamma e papà tendono a trasformarsi di volta in volta in arma, strumento di sostegno o piccoli mediatori; si sviluppa così una sorta di collusione tra i bisogni dei genitori e quelli dei figli che portano a situazioni disagevoli per questi ultimi.
Per tornare all’origine di questa riflessione sembra che i due genitori del bambino sopracitato non riescano proprio a comprendere dove sia il meglio per il loro figlio, forse troppo persi nel loro vicendevole risentimento, forse troppo chiusi in sé per comprendere che il loro bambino ha delle sue esigenze, forse troppo provati da poterlo vedere davvero per quello che è e non soltanto come una loro appendice.
Un’ultima riflessione; forse aiutando maggiormente i genitori quando si separano o divorziano si potrebbe evitare di raggiungere il parossismo di certe situazioni ed evitare alcuni traumi aggiuntivi ai bambini.
In seguito a tutto ciò sono piovuti giudizi da tutte le parti (penso in particolare a TV e giornali) giudizi leggeri ed affrettati, fatti più per fare notizia che per comprendere realmente la situazione.
Personalmente ho trovato questa sovraesposizione mediatica piuttosto spiacevole e di cattivo gusto; è davvero necessario che questo bimbo debba vivere con la consapevolezza che tutta l’Italia conosce la sua vergogna? (perché anche se lui non ha colpa la vergogna rimane sua, perché è un’emozione legata al corpo e non alla razionalità, e nella memoria corporea rimane) Ed inoltre: troviamo vergognoso che questo fatto si sia svolto in un luogo pubblico, di fronte ai compagni di scuola del bambino stesso e non, magari, a casa sua…….ma allora non è anche vergognoso che il video fatto col telefonino sia stato mostrato in tutte le case di tutte le famiglie ed a tutti i bambini che guardavano la televisione? Certo, dovere di informazione si dirà…..ma non si può informare senza per forza mostrare tutto, proprio tutto?
Il fatto è che oggi viviamo nella società dell’immagine, tutto deve essere visto per essere eccellente e fare notizia, non ci si può più limitare ad “ascoltare” una informazione come succedeva in passato.
Le immagini però possono essere pericolose, il nostro stesso inconscio comunica per immagini e sappiamo bene tutti quanto a volte siano difficili da dimenticare le immagini degli incubi. Già Jung distingueva due modi di pensare; uno per parole, direzionato, razionale ed argomentativo, ed un altro per immagini, associativo, emotivo e meno dispendioso. Da qui la pericolosità delle immagini; nel caso del fatto sopracitato l’immagine è così forte che impedisce di pensare razionalmente e di conseguenza libera le emozioni personali, diventa così facile esprimere indignazione o giudizi in maniera affrettata e superficiale, chi di noi infatti non sarebbe inondato dallo sdegno di fronte alla vista di un bambino trascinato per la strada…….ma questo modo di pensare potrebbe impedire di approfondire l’argomento, informarsi sulle ragioni di questa storia.
Allora cercando di passare ad un pensiero direzionato ci si accorge che la situazione di questa famiglia divisa è piuttosto complessa.
innanzitutto è necessario comprendere cosa accade, almeno a grandi linee, nelle coppie che si separano; due sono gli elementi che andrebbero analizzati: la crisi della coppia ed il “possesso” (mi si passi il termine) dei figli.
Il processo di separazione della coppia tira in ballo i processi di attaccamento; il legame diattaccamento tra coniugi ricalca in qualche modo il legame di attaccamento che si è avuto con i genitori e quindi è difficile da sciogliere e comunque sempre molto doloroso perché è all’origine dei sentimenti di stabilità e sicurezza di cui è difficile fare a meno di punto in bianco. Questo meccanismo ha ovviamente radici nella fisiologia del cervello (è legato alla produzione di endorfine, le sostanze che calmano la mente) e quindi una separazione comporta modifiche dell’umore e del comportamento; inoltre bisogna far scendere a patti l’emotività con la razionalità, cambiare abitudini e spesso modificare la propria personalità. A questo punto si può immaginare quanto questo percorso sia difficile e lungo, e come in realtà solo poche coppie riescano a viverlo fino in fondo. Come conseguenza si creano stati di rabbia e frustrazione, insoddisfazione e depressione che avvelenano quasi sempre le separazioni.
Da qui si può continuare analizzando il secondo elemento, il “possesso” dei figli, come diceva
È proprio in questo caso che possono diventare strumenti di rivalsa e vendetta nei confronti del coniuge, oppure possono essere utilizzati come strumenti di sostegno, oppure come dei piccoli mediatori. Ovviamente questo non significa che i padri e le madri siano dei mostri, il fatto è che i bambini stessi per cercare di mantenere l’affetto di mamma e papà tendono a trasformarsi di volta in volta in arma, strumento di sostegno o piccoli mediatori; si sviluppa così una sorta di collusione tra i bisogni dei genitori e quelli dei figli che portano a situazioni disagevoli per questi ultimi.
Per tornare all’origine di questa riflessione sembra che i due genitori del bambino sopracitato non riescano proprio a comprendere dove sia il meglio per il loro figlio, forse troppo persi nel loro vicendevole risentimento, forse troppo chiusi in sé per comprendere che il loro bambino ha delle sue esigenze, forse troppo provati da poterlo vedere davvero per quello che è e non soltanto come una loro appendice.
Un’ultima riflessione; forse aiutando maggiormente i genitori quando si separano o divorziano si potrebbe evitare di raggiungere il parossismo di certe situazioni ed evitare alcuni traumi aggiuntivi ai bambini.
domenica 7 ottobre 2012
GLI SCANDALI DELLA POLITICA E LA SCOMPARSA DEL SENSO DI COLPA
L’estinzione del
senso di colpa nella politica ha raggiunto al momento
attuale dei livelli che appaiono sempre più preoccupanti.
Nelle televisioni
come nei giornali figure della politica, della finanza, della pubblica
amministrazione fanno la fila per esprimere la mancanza di preoccupazione
riguardo agli scandali che li coinvolgono, per dire a tutti quanto siano “sereni” nel centro del ciclone che
hanno provocato.
Contemporaneamente
dalla gente sorge sempre più forte una domanda….ma come mai non provano almeno un
po’ di imbarazzo per ciò che hanno fatto?....una domanda che tra l’altro non ha
necessariamente la qualità dell’indignazione o della rabbia quanto dello stupore. Si perché sembra stupefacente,
non tanto l’entità del furto eventualmente effettuato, quanto la capacità di
queste persone di mostrarsi in pubblico dopo esserne stati accusati.
Tutta questa
situazione ci fa riflettere su come si stia trasformando oggi il senso di colpa tanto citato dalla
psicologia e dalla psicanalisi, che oggi pare provocare effetti differenti
rispetto al passato. Esso nasce dalla
consapevolezza di aver danneggiato qualcosa, oggetti ma anche persone, con
i propri comportamenti che in genere sono stati aggressivi o almeno indirizzati
a soddisfare un proprio desiderio di forza o “onnipotenza” in barba agli altri.
Questo tipo di comportamenti possono essere naturalissimi, utili nel momento in
cui permettono la propria affermazione
personale, ma poi nel loro stesso essere comportano anche lo “scotto” di pagare le conseguenze dei propri atti
nel momento in cui portano al danneggiamento altrui; in sintesi si parla della responsabilità personale.
Appare quindi
auspicabile che il senso di colpa porti ad un tentativo di riparazione del danno; questo
però non è scontato. Il senso di colpa infatti non è facile da sostenere,
appunto perché porta con sé il pagamento delle conseguenze; tornando ai vari
personaggi pubblici non sembra di vedere una particolare sofferenza nel momento
in cui continuano a dire che non sono responsabili e che sono “sereni”, questo
dovrebbe indicare il fatto che stanno cercando di fuggire dal senso di colpa
negandolo.
Questa negazione
può seguire due strade; da un lato si può restare “incastrati” nella colpa, e questo significa che per paura di
danneggiare gli altri non si fa più nulla, si resta bloccati e depressi in
senso clinico; dall’altro si può fuggire
dalla colpa innescando un sistema maniacale, cerco cioè di riparare freneticamente
quello che ho rotto facendo finta che non sia successo niente.
È come rompere
un vaso; nel primo caso mi convincerò di distruggere tutto ciò che tocco e
quindi non prenderò più in mano niente, nel secondo provo a incollare i pezzi
della porcellana sperando che nessuno si accorga della differenza, oppure
dicendo che non sono stato io, diventando un bugiardo.
Pare che le
persone che sempre più spesso vediamo in TV abbiano scelto la seconda strada,
quella del comportamento maniacale.
Entrambe queste
modalità però non sono adeguate, per il semplice motivo che negano un fatto
fondamentale, ossia che nel muoversi (e
nel vivere) inevitabilmente qualcosa si rompe e che l’unica cosa possibile da
fare è ammettere l’errore e cercare di riparare i danni in modo maturo oppure
facendo più attenzione per il futuro. Per il resto altrimenti esistono solo
il blocco depressivo o la vana fuga maniacale.
Se però l’attuale
situazione politica e finanziaria nega il senso di colpa è perché la società odierna
sta muovendosi nella stessa direzione; che è poi la direzione dell’eccesso di
individualismo.
Come già detto
il senso di colpa diventa un elemento
ponte necessario per sviluppare il senso di responsabilità personale, che a
sua volta comporta la capacità di mettersi nei panni degli altri (altrimenti
non potremmo renderci conto di averli danneggiati). Oggi invece sta via via
assottigliandosi la consapevolezza della presenza dell’Altro; se si pensa di
esistere senza gli altri, spettatori solo di sé stessi, come si può provare il
senso di colpa?
mercoledì 7 marzo 2012
Paura di cambiare: il cambiamento e la scoperta di sè
Oggi il cambiamento è un argomento che si impone agli onori della cronaca, da un punto di vista sociale e lavorativo è molto aumentata la disponibilità a cambiare ed a spostarsi, tanto fisicamente quanto mentalmente; ma la paura di cambiare è anche una condizione quasi “ontologica” dell’uomo. Alcuni cambiamenti possono di certo essere negativi ed essere addirittura traumatici, pensiamo alla perdita del lavoro per esempio, ma anche quelli positivi possono creare un pò di stress da cambiamento; questo perchè modificare le certezze, anche in maniera positiva, crea incertezze e costringe a confrontarsi con situazioni nuove che non possiamo affrontare con sicurezza perchè mai sperimentate prima.
In effetti ci sono persone nelle quali anche di fronte ad eventi positivi come una promozione, una vincita al gioco, la nascita di un figlio etc. prevale il disagio per il cambiamento piuttosto che il piacere; in generale bisogna ammettere che nessun cambiamento possa portare con sè esclusivamente effetti positivi o negativi, il fatto è che di fronte alle modifiche (non solo concrete ma anche psichiche) sale l’incertezza, la sottile paura di non riuscire a gestire il nuovo evento, una sorta di ansia anticipatoria che può provocare preoccupazione o agitazione, in sintesi vengono attivati dei meccanismi difensivi che non sono stati scelti mediante una valutazione razionale, ma che rappresentano una risposta percepita come inevitabile, automatica ed inspiegabile per proteggersi da ciò che è sconosciuto; ed ecco la paura di cambiare.
Tutto ciò può sembrare assurdo ma in realtà non lo è, tanto che nel DSM IV (manuale diagnostico dei disturbi mentali) esiste uno specifico disturbo legato a questa condizione, il disturbo dell’adattamento, diagnosticabile nel momento in cui la risposta di un soggetto ad un cambiamento di vita comporta un marcato disagio sociale e lavorativo, e questo indipendentemente dal fatto che questa novità possa essere positiva o negativa.
Al di là dell’aspetto strettamente diagnostico, va detto che le cose più importanti per l’essere umano sono la sicurezza, e la stabilità, e le variazioni indipendentemente dal loro valore vengono viste con una sorta di inconscio sospetto.
Questo meccanismo si presenta già nel bambino con il suo bisogno di attaccamento, anzi, è così forte il bisogno di sicurezze e di cure che risulta preponderante persino rispetto alla bontà o meno del comportamento del genitore (tra l’altro è per questo che un bambino non riesce a denunciare un genitore che lo maltratta, perchè la paura di perdere chi si occupa di lui è più forte di qualunque tipo di giudizio).
Ora, basta sostituire l’immagine del genitore con quella dello stile di vita che una persona conduce per capire quanto questo ragionamento ci segua anche da adulti; questo è il motivo per cui a volte persone che stanno male a causa di un rapporto o di una situazione lavorativa non riescono ad abbandonarla, qui vale il famoso detto “chi lascia la strada vecchia per la nuova….”, alcune persone lo hanno marchiato nell’anima così forte da non riuscire ad affrontare i cambiamenti anche quando risulterebbero positivi se non addirittura necessari.
Fino a qui abbiamo notato i sintomi, il disagio ed i suoi segni, e abbiamo cercato anche le motivazioni sottostanti, quelle nascoste nel passato; ma la paura di cambiare ed il suo superamento tirano in ballo il suo funzionamento; solo se capisco come funziona posso riparare un oggetto, così vale anche per la psiche e le sue dinamiche; in sintesi è necessario chiedersi cosa accade tra il momento in cui questa paura inizia a svilupparsi nel passato e quello in cui si manifesta nel presente.
Innanzitutto quando si parla di cambiamento interiore si parla anche di cambiare la visione che abbiamo di noi stessi, una visione che deve in qualche modo adeguarsi tanto al mondo esterno con le sue richieste, tanto a quello interno con suoi bisogni e le sue pulsioni; e l’immagine di noi si modifica tanto di fronte a cambiamenti positivi quanto negativi.
Erich Fromm parlava di “fuga dalla libertà”, una sorta di paura di essere finalmente liberi; quando si impone una modifica del proprio comportamento usuale quindi non c’è solo paura di perdere la sicurezza ma anche paura di ciò che si potrebbe diventare. Fromm appunto ci dice che l’uomo ha paura della libertà perchè fondamentalmente ha paura di prendersi la responsabilità di se stesso.
Su questo punto il passato con il suo bisogno di sicurezza ed il presente con le sue molteplici sfaccettature si toccano da vicino; se cambio non metto in discussione solo me ma anche il mondo che mi circonda e che mi ha visto in un certo modo fino ad ora; la domanda che sorge è se questo mondo mi accetterà anche se mi manifesterò diverso da come mi conosce; perchè il mondo, la rete sociale che mi sostiene, è in fondo la mia sicurezza e forse non me la sento di rischiare di farne a meno; ma questo significa che non me la sento di combattere per la mia libertà e per quello che potrei diventare e che potrebbe anche farmi stare meglio, oppure, ancora, significa che parto dal presupposto che la mia “libertà” non verrà accettata prima ancora di saperlo, forse perchè a non accettarla sono io per primo.
La paura del cambiamento quindi si sviluppa su di un doppio binario, l’accettazione del cambiamento da parte del mondo e l’accettazione del cambiamento da parte di me. Se sento la paura di mostrarmi cambiato è forse perchè sotto sotto ho paura di me, o almeno di una parte di me che sta emergendo.
Sotto questo punto di vista la paura di cambiare si trasforma da paura delle incertezze a paura di se stessi, di quelle parti di sè che creano inquietudine, che emergendo potrebbero cambiarci e che potrebbero essere giudicate male dagli altri perchè in primis mal giudicate da noi stessi. Eppure dentro queste parti per così dire “nuove” si nascondono le nostre capacità, per esempio la capacità di reagire positivamente ad un cambiamento imposto oppure a situazioni che avvelenano l’anima, per non parlare della capacità di gestire gli eventi positivi senza agire sulla scia del comportamento maniacale.
Come al solito il primo passo da fare è quello di riuscire ad accettare se stessi e, soprattutto, le parti di sè che non si conoscono bene alle quali non ci si sente liberi di dare spazio. Fatto questo la possibilità di attuare delle modifiche nella propria vita aumenta, e così si decide di fare un figlio, di cambiare partner, di cambiare lavoro o ricostruirlo dopo averlo perso, gettandosi in una nuova avventura. Chiaramente questo può provocare inquietudine alla persone più vicine ma questo passo diventa importante perchè è alla base del rispetto di sè come individuo, accettarsi e correre il rischio di mostrarsi diversi dal solito anche agli altri presuppone la capacità di fare affidamento su di sè, di assumersi la responsabilità di rinascere da se stessi.
Tutta questa dinamica passa attraverso il nostro Io, quella parte di noi che è cosciente di se stessa e del mondo, quella istanza psichica che ci permette di dire “io sono così e così” e “il mondo è così e così”. L’Io è depositario di quelli che sono gli schemi ed filtri attraverso cui leggiamo il mondo, quello che, per così dire, decide se vogliamo organizzare i “libri” delle esperienze per autore, piuttosto che per editore o argomento; è il responsabile del nostro metodo di apprendimento e lettura della vita.
Ogni cambiamento, imposto da fuori o da dentro di sè, passa attraverso questa fondamentale funzione; cambiare costringe l’Io a cambiare metodo di catalogazione; questo non comporta solo l’organizzazione delle nuove esperienze di vita ma anche e soprattutto la ri-organizzazione delle eserienze del passato.
Anche questo è uno dei motivi della paura del cambiamento: cambiare, soprattutto in maniera radicale, comporta la riorganizzazione del passato oltre che del presente e del futuro; è quindi una grande opera. Ma qui, in fin dei conti, si torna al punto di partenza, il bisogno di sicurezza e la paura di sè, perchè la paura che riorganizzando e ristrutturando si perda qualche certezza oppure che emerga qualcosa che avremmo voluto dimenticare è talmente forte da riuscire ad impedire qualunque progettualità di cambiamento.
Ancora di più allora per affrontare al meglio i cambiamenti è necessario essere disponibili a rischiare e, soprattutto, a rischiare di conoscere meglio se stessi.
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