lunedì 21 ottobre 2013

Quando "la notte porta consiglio": l'importanza di dormire bene

Da tempi immemorabili i medici hanno sempre decantato l’importanza di una buona qualità del sonno notturno; oggi che la scienza ha fatto passi da gigante sono emerse tutte le varie “evidenze scientifiche” che provano la saggezza del vecchio detto “la notte porta consiglio”. Qui di seguito troverete una brevissima rassegna degli studi più recenti riguardo al sonno ed in conclusione quelle che sono considerate le regole di base per un buon riposo notturno.
Innanzitutto è stato confermato il fatto che il sonno aiuti in qualche modo a “ripulire” il cervello. Secondo un nuovo studio della University of Rochester (Usa) pubblicato su Science,  il sistema di ripulitura del cervello sembra essere attivo principalmente di notte, durante il riposo.  
Uno degli autori della ricerca, ha scoperto che nel cervello esiste un sistema che drena in modo veloce i rifiuti (sottoprodotti dell’attività neurale, come le tossine), chiamato “sistema glimfatico”. Simile al sistema linfatico che detossifica il corpo, il sistema glinfatico agisce come una serie di tubi che, situati sopra i vasi sanguigni del cervello, fanno scorrere il fluido cerebrospinale che lava via le tossine. Il concentrato di sostanze tossiche ( tra cui quelle responsabili del morbo di Alzheimer e di altri disturbi neurologici) viene poi drenato nei vasi sanguigni cerebrali e espulso dal cervello. 
Esperimenti su topi hanno infatti dimostrato che il sistema di lavaggio è dieci volte più attivo nel sonno che nelle ore di veglia. Inoltre nel sonno è stato visto che i neuroni si restringono riducendo le proprie dimensioni del 60% proprio per consentire al sistema di drenaggio delle tossine di funzionare meglio. 
Questo per quanto riguarda il funzionamento “fisiologico” del cervello; ci sono poi altri studi che spiegano come il riposo notturno aiuti a mantenere una maggiore lucidità nel prendere delle decisioni.
A parere degli esperti della Carnegie Mellon University, che si sono occupati di condurre il più recente studio in proposito, sarebbero sufficienti due minuti di distrazione per poter prendere una decisione o giungere alla soluzione di un problema in maniera più lucida.
I ricercatori hanno osservato i processi cerebrali di 27 adulti, ai quali era stato richiesto di distrarsi attraverso compiti matematici, ad esempio memorizzando sequenze di numeri, prima di dedicarsi alla decisione da intraprendere.
In questo modo gli esperti hanno potuto dimostrare come il cervello sia in grado di elaborare i dati relativi alla situazione decisionale anche nel momento in cui una parte di esso venga occupata da attività tese a generare distrazione.
I momenti di distrazione sarebbero dunque necessari per intraprendere decisioni migliori. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulle pagine della rivista scientifica Social Cognitive and Affective Neuroscience.
Una delle più visibili evidenze di questo fenomeno è rappresentato dai sogni che sono il modo in cui il cervello elabora, integra e comprende nuove informazioni.
Ma un buon sonno non sembra essere utile solo all’individuo, ci sono infatti studi che dimostrano come “dormire bene” faccia bene pure alla vita di coppia; è quanto emerso da uno studio condotto da parte dei ricercatori dell'Università di Berkeley. Dormire meglio e a lungo rende marito e moglie più propensi a compiere gesti di tenerezza reciproca durante il giorno.
Gli esperti si sono occupati di annotare e di valutare gli apprezzamenti ed i gesti di tenerezza che le coppie osservate hanno compiuto durante il giorno nel corso dell'esperimento.
Il team di ricercatori californiani si è occupato di studiare 60 coppie di età compresa tra i 18 ed i 56 anni. Ad ognuna di esse è stato richiesto di tenere un diario delle ore di sonno che marito e moglie si sono concessi ogni notte, con annotazioni sulle attenzioni e sulle tenerezze scambiate vicendevolmente nel corso della giornata.
Inoltre ai volontari è stato richiesto di prendere parte ad un esperimento nel corso del quale sono stati valutati l'affiatamento e la capacità di gioco di squadra all'interno della coppia. Dai risultati ottenuti è emerso come le coppie che si concedevano un maggior numero di ore di sonno riuscissero ad andare maggiormente d'accordo.
Ora che abbiamo appurato “scientificamente” quanto sia importante dormire bene, vediamo come fare in pratica per garantirci un buon riposo notturno; non servono farmaci, è sufficiente seguire alcune piccole regole:
1.                  Andare a dormire solo quando si ha veramente sonno preferimilmente ogni sera alla stessa ora.
2.                  Alzarsi ogni mattina alla stessa ora, anche durante il fine settimana e indipendentemente da quanto si è dormito la notte. Nel caso ci si svegli prima del suono della sveglia, alzarsi dal letto e iniziare la propria giornata.
3.                  Evitare o limitare i “sonnellini” pomeridiani. Nel caso si abbia necessità è preferibile che non avvengano nel tardo pomeriggio poiché influiscono negativamente sul sonno notturno.
4.                  Non rimanere nel letto nel caso non si riesca a dormire, alzarsi, uscire dalla camera da letto e dedicarsi ad attività rilassanti, come la lettura di un libro o ascoltare musica soft.
5.                  Il letto deve essere utilizzato esclusivamente per dormire o per attività sessuali. Non mangiare, guardare la televisoone, lavorare o studiare a letto.
6.                  Prima di coricarsi svolgere attività rilassanti, per esempio facendo un bagno caldo (non la doccia, che ha un effetto stimolante), assumere bevande a effetto rilassante, come latte caldo o tisane o infusi a base di erbe.
7.                  Se si ha fame all’ora di andare a dormire, mangiare qualcosa di leggero per non avere poi problemi di digestione.
8.                  Controllare l’ambiente della camera da letto: rumore, temperatura, umidità e luminosità poichè influiscono sul sonno. Evitare, quindi, di dormire in ambienti rumorosi, troppo caldi o troppo freddi.
9.                  Se possibile non conumare pasti pesanti o eccessivamente ricchi di carboidrati la sera in quanto rendono difficile la digestione e ritardano l’addormentamento.
10.              L’esercizio fisico va evitato nelle ore serali, ma svolgere con regolarità un’attività fisica durante il giorno, può facilitare una buona notte di sonno.
11.              Non consumare caffeina, alcool, tabacco, o cioccolato nelle ore serali o nel tardo pomeriggio. Sono sostanze eccitanti.
12.              Evitare l’uso inappropriato di farmaci ipnotici e sedativi perché determinano dipendenza,  possono portare a un peggioramentoin termini qualitativi del sonno.
13.              E’ sconsigliato svolgere attività mentali troppo impegnative la sera.

domenica 6 ottobre 2013

L'altra faccia delle emozioni

Ansia, rabbia, paura sono emozioni inevitabili nella relazione con l’altro, in particolar modo nelle relazioni d’aiuto ed educative. Usarle come risorsa, piuttosto che come “deficit” emotivo, è utile a rendere più “umana” la nostra vita di tutti i giorni.



La giornata formativa intende fornire gli strumenti teorici e pratici per riconoscere le emozioni negative, gestirle e renderle un'arma vincente. 

Terrà l'incontro il Dott. Fabrizio Mancinelli. Psicologo e Psicoterapeuta



E' rivolto a insegnanti, educatori, operatori sociali e chiunque fosse interessato. 



L'incontro è a numero chiuso. Le iscrizioni devono pervenire entro e non oltre mercoledi 23 ottobre 2013 al numero 333 4867536.



Alla fine verrà rilasciato un attestato di partecipazione.



La quota di partecipazione è di 15€

giovedì 3 ottobre 2013

Gli innumerevoli benefici di un sorriso : )

In tempi critici e ansiogeni come i nostri è sempre più difficile affrontare con serenità le cose che ci accadono tutti i giorni, è difficile sentirsi davvero felici per qualcosa, saranno le innumerevoli preoccupazioni ma anche gli eventi più gioiosi sembrano dare meno soddisfazione rispetto al passato. Il problema fondamentale è che per mantenere un buon livello di soddisfazione non possiamo fare a meno di tenere in conto l'ambiente che ci circonda: in questo senso possiamo fare tutto il possibile e l'immaginabile per mantenere dentro di noi calma e serenità ma se tutto intorno a noi continua a spirare un forte vento di crisi la nostra forza viene di continuo intaccata da ansie e preoccupazioni.
Nonostante ciò non è possibile dimenticare quanto realmente il nostro atteggiamento interiore può essere utile per dare un colore differente alla grigia realtà che magari stiamo vivendo; voglio specificare che non parlo tanto di situazioni realmente critiche, che non possono assolutamente essere negate ma anzi vanno osservate bene, non voglio riferirmi a chi magarei non arriva realmente alla fine del mese, a chi ha perso tutto. Mi riferisco invece a chi non ha raggiunto questo limite ma che si sente comunque in gabbia, circondato dall'incertezza e che, di fronte alla paura del futuro, rischia di restare bloccato; è soprattutto in situazioni di questo genere che ci si accorge, all'improvviso, di non riuscire più a godere delle soddisfazioni come si riusciva a fare prima; ci si chiude come dentro un bozzolo difensivo che , se da un lato attutisce l'impatto delle angosce, dall'altro riduce anche l'effetto delle gioie che comunque rimangono.
Ed alle volte è davvero sufficente un sorriso. Noi in generale non ci rendiamo conto a pieno di quanto la nostra vita psichica sia influenzata dall'atteggiamento corporeo; i nostri muscoli inviano di continuo informazioni al cervello e ne modificano l'attività di conseguenza.
Vi è mai capitato di essere particolamente giù di morale e di accorgervi che solo raddrizzando la schiena (perchè quando siamo abbattuti tende a curvarsi) sembra quasi che la situazioni migliori?
E magari vi è successo che persi tra mille pensieri questi sono come spariti nel momento in cui vi è capitato di "sentire" fisicamente il modo in cui stavate camminando o stavate seduti ( e questo perchè quando ci concentriamo sul corpo autamaticamente rientriamo nel presente)?
E quindi, per tornare all'argomento, vi è mai successo che vi siete trovati a sorridere (e non intendo ridere a crepapelle, solo sorridere un pò) per qualcosa che avete visto o per una battuta che avete solo ascoltato al bar a colazione, e di sentirvi all'improvviso meno turbati di quanto eravate solo un attimo prima?
Ecco, se vi è capitato questo conoscete i benefici che può apportare un sorriso.
Pensate che esiste una vera e propria scienza che studia la risata e le emozioni positive in funzione di prevenzione, riabilitazione e formazione.
E allora ecco i vari benefici della risata:
Ridere mette in movimento almeno 20 muscoli facciali, molti dei quali si attivano solo con una risata spontanea e ciò aiuta a prevenire la comparsa di rughe sul nostro viso.
Una risata di cuore smorza la tensione e allenta lansia. Infatti mentre ridiamo il nostro corpo viene indotto a rilasciare alti livelli delle nostre droghe naturali: le endorfine prodotte (betaendorfine) combattono la debolezza fisica e mentale e alleviano lo stress e le tensioni accumulate nel nostro organismo riducendo anche linsonnia, mentre le encefaline rinforzano il nostro sistema immunitario (lo stress aumenta le probabilità di ammalarsi). Tutte le emozioni negative come lansia, la depressione o la rabbia indeboliscono il sistema immunitario, riducendo la sua capacità di combattere le malattie, mentre la risata e tutti i pensieri positivi aumentano la produzione di cellule natural killer, cellule che combattono i virus , e degli anticorpi.
Con una bella risata la respirazione tende ad aumentare, migliorando la trasformazione dellacido lattico e la respirazione in generale provocando un rilassamento muscolare delle fibre lisce dei bronchi per azione del sistema parasimpatico dando benefici in particolare a chi soffre di bronchite, di asma, ed a coloro che soffrono di enfisema.
Un sorriso quindi migliora la nostra circolazione sanguigna, permettendo una maggiore ossigenazione a tutti i tessuti del nostro corpo e velocizzando la loro rigenerazione.
Allora, la prossima volta che ci capita di sentire o vedere qualcosa di divertente non restiamo chiusi nella cupezza ma lasciamoci andare ad un sorriso e magari ci accorgeremo che poi la vita sembra un pò più rosa.

lunedì 2 settembre 2013

Finite le vacanze...come combattere "lo stress da rientro"

 Eccoci a settembre, e per molti questo significa “fine delle ferie” e, ancora peggio, rientro al lavoro passando per il “trauma da lunedì”. Alcune persone riescono a superare il rientro abbastanza agevolmente, altre meno, e questo per motivi caratteriali; in ogni caso tutti al ritorno fanno fatica a ripartire, a riadattarsi ai vecchi ritmi, e ci si sente stanchi e deconcentrati.
Quando le difficoltà sono maggiori si può parlare di “stress da rientro”, i cui sintomi più comuni sono: mal di testa, stordimento, irritabilità, sonno disturbato, calo dell’attenzione, debolezza, malinconia, apatia e, nel peggiore dei casi, depressione, generati da una condizione psicologica negativa per aver vissuto una lunga vacanza spensierata, senza regole e costantemente rivista in veste nostalgica. Secondo i dati Istat un italiano su dieci trova difficoltà a riadattarsi nel solito tran tran quotidiano, questa difficoltà, nei casi più gravi, dura anche mesi.
Ritornare alle “vecchie abitudini” significa ad ogni modo andare incontro ad un cambiamento rispetto ai ritmi fisiologici e psicologici a cui ci siamo abituati durante le vacanze. Laddove il cambiamento richiesto è troppo repentino, il nostro corpo “legge” tali richieste come un segnale di emergenza attivando dal punto di vista fisiologico delle risposte innate utili a fronteggiare la situazione. Infatti i sintomi sopra elencati non sono altro che una risposta del nostro corpo conseguente ad un cambiamento repentino cui il nostro fisico e la nostra mente debbono adattarsi.
Ovviamente questo stato di disagio è fisiologico perché è normale che il nostro corpo e la nostra mente abbiano bisogno di un po’ di tempo per abituarsi a nuovi ritmi (è per questo motivo che a volte anche i primi giorni di ferie possono risultare stressanti) ed in genere bastano un paio di settimane per riabituarsi.
Ma come è possibile “auto-aiutarci” a superare lo stress da rientro? A volte è sufficiente prendere alcuni piccoli accorgimenti, qui ne elenchiamo 7:

1) sarebbe meglio anticipare il rientro di qualche giorno prima di ripartire con il lavoro, in modo da rientrare gradualmente nella routine quotidiana ed avere il tempo per sbrogliare le eventuali incombenze che si sono accumulate nel periodo delle ferie (potreste trovare bollette che vi attendono). Inoltre, siccome a volte le vacanze vengono svolte a ritmi abbastanza sostenuti, si può approfittare di questi giorni “cuscinetto” per dedicarsi solamente al riposo. Se questo non è stato possibile potete provare a supplire con l’immaginazione, iniziando a prepararvi mentalmente al rientro qualche un paio di giorni prima (non di più per non rovinarvi gli ultimi giorni) della fine delle vacanze.

2) altra cosa che si può fare negli ultimi giorni di ferie è fare un elenco di situazioni legate al rientro che vi creano ansia, prendete carta e penna e provate a fare un piccolo elenco. Definite con precisione, meglio che potete, quale è il problema per voi in quella situazione; poi pensate a quel problema, quali potrebbero essere le possibili soluzioni e in che modo si potrebbero mettere in pratica, poi passate all’azione e verificate dopo qualche tempo se avete raggiunto il vostro obiettivo. Se non ha funzionato non scoraggiatevi e provate a pensare ad un’altra soluzione, prima o poi arriverà quella giusta.

3) continuate a dedicarvi ad attività divertenti e rilassanti; non è bene cambiare in maniera repentina le proprie abitudini, quando tornate a casa continuatele, magari in tono minore, per rientrare gradualmente nel ritmo lavorativo o scolastico.

4) nella stessa ottica continuate a mantenere alcune abitudini rilassanti all’interno della famiglia, con il partner o con gli amici….non rimettete subito il muso lungo da lunedì.

5) foto e ricordi sempre in compagnia; guardare le foto delle vacanze con la famiglia o con gli amici può essre un’attività estremamente divertente, che permette di portare il clima di festa anche nei primi giorni di rientro. Non fatelo da soli, perché così scatterebbe una nostalgia che potreste non arginare e potreste trovarvi pieni di rimpianti come i protagonisti di una nota compagnia di crociere di qualche anno fa.

6) se al rientro vi ritrovate sommersi dal lavoro provate, quando e de è possibile, a delegare gli impegni ad altri. La nostra mente ha bisogno di sintonizzarsi con calma su nuovi ritmi; l’importante è che lasciate andare le manie di controllo che non vi fanno fidare dei collaboratori.

7) non è possibile fare tutto e subito, soprattutto con lo stress da rientro; questo significa che se si è accumulato molto lavoro piuttosto che impazzire per sbrogliarlo tutto ( e male ) in 2 giorni è sicuramente meglio stabilire delle priorità, dare precedenza a ciò che è più importante, così ci impiegherete qualche giorno in più ma è anche garantita una maggiore lucidità ( e se proprio non ci riuscite andate al punto 6)

Questi sono solo alcuni consigli che però possono aiutare ad affrontare meglio il rientro, provare per credere e, se avete qualche altro consiglio…..fateci sapere!

domenica 23 giugno 2013

Paura d'amare; cos'è e come affrontarla

Innamorarsi è una delle esperienze più belle ( e spesso sconvolgenti) che si possano provare, ma non è così per tutti, ci sono persone che hanno paura di amare ed essere amati, magari per paura di essere traditi o di perdere il controllo sui propri sentimenti. Di questa paura se ne è spesso occupato il cinema, vedi il film che proprio “Paura d’amare” si intitola….pensiamo alla protagonista Julia Roberts che in “Se scappi ti sposo” fugge da ben 4 matrimoni…e l’elenco potrebbe anche essere molto più lungo; però a questo fenomeno si è anche interessata la psicologia, ovviamente, anche se trovando un termine più “scientifico” per chiamarlo, la cosiddetta Philofobia, che indica appunto la paura di innamorarsi e di essere amati da qualcuno. Desiderare immensamente una persona, lasciarsi andare, fidarsi pienamente, aprirsi e perdere parte della propria razionalità sono solo alcune delle sensazioni che vengono provate durante un vero e proprio innamoramento ma, nel momento in cui tutto ciò spaventa, scatta una sorta di meccanismo difensivo che è appunto la philofobia; molte persone avvertono infatti una grande difficoltà ad approcciarsi all’altro, data da profondi timori, ansie, incertezze, che si basa sulla paura dell’altro e sulla mancanza di fiducia. La gioia di sentirsi parte di una coppia viene vissuta come una minaccia alla propria stabilità emotiva, e viene vista con diffidenza.


Questa paura, nelle sue fasi acute e nei casi più estremi, si manifesta addirittura con gli stessi sintomi di una attacco d’ansia o di panico. Come sintomi possiamo trovare infatti: sudorazione eccessiva, nausea, tachicardia, agitazione ed altri sintomi tipici dell’ansia, ma anche difficoltà legate alla sfera sessuale come la difficoltà a raggiungere l’orgasmo nella donna o le disfunzioni erettili nell’uomo.
Ma quali sono le cause che creano questo meccanismo difensivo?
Alcune possono essere definite reattivo-situazionali, quali ad esempio una passata e profonda delusione sentimentale che ha profondamente ferito al punto di non volerne più sapere d’innamorarci per il timore di soffrire di nuovo o di essere nuovamente delusi.
Altre volte l’amore può venire considerato un fattore invalidante in quanto può far sentire deboli. È tipico delle persone che vogliono mostrarsi forti e confermare la propria autosufficienza, in questo contesto l’amore  viene visto come una minaccia perché entra in gioco anche la paura di perdere la propria libertà o il controllo delle proprie emozioni. L’amore procura infatti cambiamenti radicali nelle abitudini e nello stile di vita; quindi se nella persona c’è una forte resistenza al cambiamento innamorarsi o essere amati può fare paura (vedi: Paura di cambiare).
Spesso le cause sono rintracciabili nel rapporto con i genitori; sono appunto loro a tracciare le modalità con cui poi da adulti rispondiamo all’amore. Se un genitore non esprime correttamente i suoi sentimenti oppure non riconosce quelli di suo figlio si può contribuire a creare una grossa confusione dal punto di vista affettivo. A causa di questa confusione il bambino può essere portato a nascondere i suoi sentimenti o a negare tutto un vissuto emotivo ed affettivo che nell’età adulta diventerà la caratteristica che gli impedirà di avere delle relazioni affettive soddisfacenti.
Non bisogna poi dimenticare che può esistere un fattore cosiddetto “ auto lesivo” che porta le persone a sabotare in tutti i modi la propria storia d’amore.
La naturale conseguenza della Philofobia è che si tende a scegliere rapporti impossibili la cui conclusione è la rottura; si trovano pretesti per litigi e vengono preferiti rapporti tumultuosi. Talvolta ci si concentra su particolari o difetti impercettibili o si creano situazioni atte a distruggere il rapporto. Il problema è che nonostante tutto questo la fuga dal rapporto non elimina bensì intensifica la paura stessa, che finisce per nutrirsi di se stessa.
Ma, a questo punto, cosa è possibile fare per comprendere e provare a gestire questa paura?
  • Innanzitutto è necessario smettere di fuggire dai rapporti ma cercare di comprendere i sintomi del disagio, per aumentare la consapevolezza e, tramite la riflessione, ridurre l’intensità della paura.
  • È importante evitare il più possibile i confronti con le storie passate; restare concentrati nelle storie passata fa infatti aumentare la paura di un nuovo fallimento ed impedisce di godersi i momenti belli della storia attuale.
  • Bisogna ridurre le aspettative per il futuro, che potrebbero intensificare i sintomi e cercare di vivere nel presente, cercando di affrontare ogni giorno come se fosse nuovo.
  • Una cosa che sicuramente non guasta mai è il coraggio di parlare con il partner delle proprie paure e raccontargliele. In questo modo si intensifica l’entità della fiducia canalizzando il rapporto di coppia in modo positivo; l’unica cosa a cui fare attenzione è che questo non sia un cosiddetto argomento Tabù che va affrontato con maggior attenzione (vedi: Di cosa parlare in coppia?).
È chiaro che queste indicazioni non sono la panacea per tutti i mali, ma almeno permettono di diventare consapevoli del problema; la consapevolezza della situazione in cui ci troviamo ha il potere di farci sentire responsabili per essa, ci fa smettere di prendercela solo con gli altri, ci fa capire che la responsabilità di un rapporto che non va è anche la nostra.

Detta così sembrerebbe che diventare consapevoli sia solo una sofferenza, ma questo non è vero,  solo nel momento in cui percepiamo che un certo problema ci appartiene siamo capaci di mettere in atto le strategie per affrontarlo e quindi stare meglio; come diceva R. Carckhuff, solo quando ci si sente responsabili del proprio stato di sofferenza si riesce a trovare dentro di sé la forza per risolverlo e per trasformarlo in qualcosa di buono.

martedì 11 giugno 2013

Elogio della depressione.....matrice di creatività

Illustrazione dal "Libro Rosso" di C. G. Jung

Spesso i comportamenti frettolosi, accelerati della nostra epoca nascondo una forte paura del vuoto e della depressione. Ma se da un lato questa patologia provoca dolore e solitudine, dall’altro può portare, se ben affrontata, delle insospettate risorse creative.

Della nostra epoca si dice sia “l’epoca della maniacalità”, della fretta e dell’ansia; in effetti è vero che siamo sempre più “di fretta”, perfezionisti, preoccupati, accelerati….e di conseguenza anche un po’ più superficiali.
Ma quante volte il perfezionismo nasconde la paura dell’abbandono e del biasimo? Quanto spesso l’accelerazione e la fretta mascherano la paura del vuoto? Quanto la possibilità di avere molte più informazioni e competenze superficiali si trasforma in paura dell’approfondimento, in svogliatezza?
In psicologia si dice che l’ansia vada “a braccetto” con la depressione, indicando con questo che spesso, molto spesso, la prima non è altro che la maschera della seconda.
Allora, forse, più che vivere in un’epoca maniacale viviamo “anche” nella sua controparte, un’epoca depressiva; qualcuno che non ricordo spiegava molto bene che in tempi come i nostri la depressione diventa una specie di “bene fondamentale”, perché va a soddisfare la naturale esigenza dell’uomo di approfondire sé stesso, le sue motivazioni e il senso della sua vita. Vivendo in continuo movimento e mutamento viene a mancare la possibilità di fermarsi, di sostare dentro se stessi e comprendersi un po’, fare il punto della propria situazione esistenziale. A questo punto il comparire di periodi di depressione (ovviamente non stiamo parlando della vera e propria depressione patologica descritta nei manuali diagnostici ma di quei momenti di profondo abbattimento in cui capita di incappare nella vita), diventa funzionale proprio a questi obiettivi.
Con questo non si vuole assolutamente minimizzare la portata “deflagrante” di un episodio depressivo, che provoca sempre una sofferenza acuta quanto “sorda” e di difficile risoluzione. La solitudine è forse una delle principali sofferenze di una persona depressa, quella straziante sensazione che non si possa fare affidamento su nessuno al di fuori di se stessi, quel circolo vizioso che continua a far sentire separati dal resto del mondo, una sofferenza che sembra nutrirsi e vivere di se stessa. Le persone che soffrono di più sono proprio quelle che non hanno la possibilità di dialogo, di confronto con gli altri; noi tutti infatti siamo prepotentemente sospinti a ricercare rapporti, perché è solo tramite questi che possiamo veicolare fuori di noi, e conoscere, le nostre emozioni.
Nei casi più gravi l’impressione è quella di una caduta senza ritorno; non c’è più nulla nel mondo esterno che possa aiutare, nessuno stimolo che solleciti l’interesse o che possa accendere un barlume di progettualità.
Ma allora come si fa per uscirne e, ancora, come si fa per convivere con questo stato dell’anima quando si presenta? L’unica soluzione pare essere quella di attribuire un senso agli eventi che provocano questo dolore. In questo caso è interessante quanto affermato da Carotenuto:
“ Le ferite dell’anima, però, possono trasformarsi in principi attivatori del nostro risveglio psicologico, capaci di innescare la nostra rinascita, il cambiamento a cui tutte le esperienze vissute ci hanno preparato. La particolarità della sofferenza, infatti, consiste nella possibilità che essa ci offre di trarre nutrimento dallo sviluppo della nostra vita interiore…… la sofferenza e la “prigionia” della nostra anima illuminano e rendono visibile il patrimonio più prezioso e nascosto delle nostre risorse psichiche.”
Uscire da una depressione significa portarsi dietro un pesante ma ricco fardello: tutte le esperienze psicologiche e tutte le riflessioni generate dalla depressione stessa. È per questo che in genere dopo un episodio depressivo se ne manifesta uno maniacale, di entusiasmo e di confusione, ricco di idee e spunti creativi che se si avrà costanza potranno essere messi a frutto. Non per niente molti artisti riferiscono di aver creato le loro opere migliori in una sorta di “incendio creativo” conseguente ad un periodo di depressione e profonda solitudine; questa infatti più di altre sofferenze psicologiche rappresenta una possibilità di metamorfosi e, spesso, fonte di arricchimento interiore.
Ovviamente questo non vuol dire che una depressione sia qualcosa di auspicabile; tutt’altro, dovremmo però essere capaci di entrare più spesso in contatto con le nostre profondità inconsce, trovare più spesso dei momenti per stare da soli con noi stessi; nel momento in cui le occasioni di “introversione” trovano libera espressione nella vita quotidiana diminuisce il rischio di affrontare un vero e proprio episodio depressivo.
Avremmo così più momenti di consapevolezza e saremmo capaci di trovare soluzioni creative alle nostre difficoltà molto più spesso e senza dover necessariamente attendere di sprofondare nel buio.

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mercoledì 5 giugno 2013

Di cosa parlare in coppia? Attenti ai Tabù

E. Hopper "Summer Evening

Si dice che nella coppia i partner dovrebbero comunicare il più possibile; ma questo è sempre vero? E’ davvero necessario dire tutto? Pare di no, ci sono infatti degli argomenti Tabù che a volte è meglio evitare, pena la perdita della calma da parte di entrambi.
Gli psicologi ci hanno sempre consigliato che nella coppia i partner dovrebbero cercare di parlare di tutto ciò che li riguarda, a partire dai sentimenti individuali per finire agli argomenti inerenti alla coppia stessa. Tutto questo è sicuramente un bene, e molti sono i vantaggi: aumenta la conoscenza reciproca e quindi il livello di comprensione, ci si sente più liberi e più adeguati, parlare di sé aiuta a trovare i propri spazi individuali nella vita insieme, e dall’altro lato aumenta il senso di intimità e di sicurezza.
Succede però che ogni tanto anche nelle coppie più affiatate emergono nelle discussioni tematiche che preannunciano grosse tempeste; sono i cosiddetti argomenti Tabù, di cui non si può parlare senza far scattare una lite furibonda.
Qualunque coppia ne ha almeno uno e in genere fa di tutto per evitarlo appunto perché ne conosce le conseguenze.
Questi tabù possono riguardare qualunque argomento, da quelli più seri a quelli più leggeri come le più piccole incoerenze personali; ed è così che il detonatore viene attivato dall’educazione dei figli, la gestione dei soldi o i rapporti con le famiglie di origine, ma anche dalla mancanza di alcune piccole attenzioni, come dire ti amo, o da come ci si veste o per i panni che si lasciano in giro etc etc.
Indipendentemente dall’argomento la cosa importante è che in esso è contenuto un significato molto più importante che urta la sensibilità di entrambi i partner e che porta all’esasperazione emotiva; allora ecco che un metodo educativo troppo serio di lui verso i figli risveglia in lei l’energia di tutte le battaglie che ha combattuto per rendersi autonoma dai genitori; oppure, altro esempio, il rapporto troppo stretto di lei con sua madre entra in conflitto con la storia di lui, che magari ha una storia personale di carenze affettive da parte dei genitori che lo rendono allergico a forme di attaccamento che gli sanno di dipendenza affettiva.
Ma allora che bisogna fare, questi argomenti entrano nel novero di ciò di cui bisogna parlare oppure è meglio lasciarli perdere?
La storia ci insegna che il tabù è una forma necessaria utilizzata per mantenere la coesione all’interno di un gruppo sociale, come i famosi “Comandamenti” tra i quali abbiamo “non uccidere” e “non rubare”, sono quindi delle forme difensive naturali che nel nostro caso andrebbero a proteggere la coppia dalla rottura. Come tutte le difese quindi, se da un lato impedisce di raggiungere delle soluzioni dall’altro rappresenta un elemento protettivo.
Questo significa che in via generale l’argomento potrebbe pure essere trattato ma con un numero molto maggiore di attenzioni ed un accurata riflessione prima di affrontarlo.
Innanzitutto bisogna capire, nel momento in cui si crea il tabù, che ci sono dei motivi importati che riguardano entrambi i partner; ferite ancora aperte, traumi inconsci, situazioni non risolte, paure poco chiare, somiglianze con sofferenze del passato insomma, ma anche giudizi sul partner che se espressi lo ferirebbero troppo. È importante essere obiettivi al massimo nella riflessione e farla innanzitutto da soli, cercando di comprendere se quel certo argomento stia o meno minando effettivamente la stabilità della coppia e la sua intimità più profonda.
A questo punto è importante scegliere anche il momento per parlarne, infatti se venisse tirato fuori in momenti emotivamente carichi non sarebbe altro che un modo strumentale all’espressione ed allo sfogo della rabbia ma non alla comprensione reciproca; quindi meglio aspettare i momenti in cui c’è maggiore tranquillità, evitando quelli felici però, che altrimenti ne uscirebbero sciupati.
Riuscire ad eliminare o gestire un argomento tabù è comunque una conquista, che rende più liberi anche per il solo fatto di averlo compreso meglio e che può indurci, tramite questa comprensione, a capire di più l’altro ed amarlo meglio, in modo più maturo.

mercoledì 15 maggio 2013

Superstizione e gioco d'azzardo patologico

Il gioco d’azzardo patologico, o Gambling, si sta connotando come una vera e propria “piaga” della nostra società, che porta agli onori della cronaca storie di vite e famiglie distrutte tanto economicamente che moralmente, quando non storie di suicidi. Tra le varie componenti di questa nuova dipendenza un articolo di Psychology Today analizza l’aspetto legato alla superstizione ed alle credenze magiche. La componente “magica” non riguarda solo i “pivelli” del gioco d’azzardo ma anche i più abili e competenti tra di essi. Indicata come una fede nella magia, la superstizione può coprire molti ambiti tra i quali la credenza in azioni fortunate o sfortunate, nella simbologia dei numeri,  nell’astrologia, l’occulto, il paranormale fino ai fantasmi. Quando si tratta di gioco d’azzardo l’ambito in cui si esprime la componente superstiziosa è la credenza che una data azione possa portare fortuna o sfortuna, nel momento in cui non ci sono motivi razionali o generalmente accettabili per l’eventuale buona riuscita del gioco.
Le ricerche indicano che circa un terzo di noi è superstizioso e che la maggior parte della gente tende ad avere quelle che sono chiamate mezze-superstizioni. Si tratta di persone in genere razionali ma che in situazioni di incertezza, di stress o di bisogno di aiuto cercano di riprendere il controllo personale sugli eventi tramite la superstizione, ossia cercando di controllare il caso; questo è quello che spesso accade nel gioco d’azzardo. Non è quindi casuale che l’aumento del gioco d’azzardo patologico avvenga proprio in questo momento storico, un periodo di incertezza e di crisi, tanto economica quanto sociale, e non è forse un caso che l’Italia risulta essere uno dei paesi europei con la maggior quantità di casi di Gambling.
Lo psicologo Tedesco Willelm Wagenaar ipotizza che, quando le cause di qualcosa appaiono sconosciute, i giocatori attribuiscono gli eventi a cause astratte come fortuna o possibilità casuali; sulla stessa scia altri studiosi suggeriscono che la fortuna può essere immaginata come caratteristica di una persona mentre la possibilità casuale è vista come un evento non controllabile, casuale appunto. Riguardo ai giocatori patologici pare che la causa maggiormente addotta per le eventuali vincite sia il controllo sulla loro stessa fortuna, ossia su una caratteristica propria.
Nella realtà di studi sulla superstizione nel gioco d’azzardo ce ne sono pochi. Uno di essi, effettuato dalla Nottingham Trent Universty, ha individuato che i giocatori che spendono di più sono quelli che hanno più credenze superstiziose come quella avere un amico fortunate da portare con sè, credere nella “serata fortunate” o nella positività o negatività di alcuni specifici numeri.
Se da un lato si manifesta il bisogno di controllare gli eventi, dall’altro è però sempre presente anche la componente eccitatoria,  perchè i giocatori nel momento in cui giocano riferiscono di provare maggior divertimento ed eccitazione quando tirano in ballo queste credenze (è eccitante dire “questa è la mia serata fortunata” piuttosto che “questo è il mio numero (o posto) fortunato”).
In via generale questi studi individuano 2 elementi caratteristici del Gambling: da un lato c’è il bisogno di accedere a stati di eccitazione, il brivido del gioco, il bisogno di vivere esperienze intense che scopre un livello di attivazione piuttosto alto; in sintesi il fatto che alcune persone più di altre hanno bisogno di esperienze forti per provare uno stato di benessere adeguato e soddisfacente; dall’altro la necessita di una autocura; l’esistenza di uno stato di stress o malessere che si cerca di controllare simbolicamente tramite il controllo della fortuna al gioco.
Appare paradossale ma sembra che proprio nel momento in cui si sente di perdere il controllo sulla propria esistenza ci si rivolga a ciò che c’è di meno controllabile nella vita, la fortuna.
A tratti questo tipo di dinamica pare ricordare quello che secondo la psicanalisi è il rapporto tra la coscienza e l’inconscio, l’eterno tentativo dell’Io di controllare l’ignoto. Questa però, inserita nel disagio che il Gambling comporta, si configura come una dinamica profondamente individualistica e, visti i risultati, inutile; giocare d’azzardo per risolvere i propri problemi è come volere a tutti i costi cavarsela da sè, affrontare uno sforzo titanico che porta al fallimento, perchè cercare di controllare gli eventi della vita e le sue strane giravolte da soli è come combattere contro i famosi mulini a vento di Don Chisciotte. In questo caso l’attuale visione solipsistica della nostra cultura non aiuta, non è infatti una incorporea dea bendata che potrà risolverci i problemi ma bensì le persone in carne, ossa e sentimenti che ci stanno vicine tutti i giorni.

venerdì 29 marzo 2013

L'ottimismo è il sale della vita: imparare a pensare positivo

Una visione del mondo rosea e ottimista è l’arma in più che ci consente di vincere le sfide quotidiane (e che ci può anche aiutare a guadagnare di più); almeno secondo gli studi di Sharot, ricercatrice all’University College di Londra.
La ricerca, tramite l'uso di risonanze magnetiche che mostrano come funziona il cervello quando semplicemente immaginiamo di agire in modo ottimistico, illustra come gli esseri umani siano naturalmente portati a rifuggire il pessimismo.
Credere in noi stessi aiuta sicuramente a raggiungere gli obiettivi prefissati ma, ancor più importante, consente di sopravvivere ad eventi avversi che – in misura maggiore o minore – siamo chiamati ad affrontare. Come a dire che tra le tante risorse di cui l’essere umano dispone, l’ottimismo è quella che consente di preservare la specie, a dispetto di tutto.
Questo accade perchè il cervello umano adotta dei piccoli trucchi per far apparire la vita migliore di quella che è in realtà. Il cervello degli ottimisti sembrano elaborare i dati, utilizzati per prevedere il futuro, selezionando in maggior numero quelli positivi, e cercando di ignorare quelli negativi inducendo gli ottimisti ad immaginare un futuro migliore.
Ovviamente eventi o circostanze esterne (condizione socio economica, organizzazione famigliare etc.) o fasi della vita particolari (adolescenza e vecchiaia, ad esempio) possono minare l’ottimismo innato e spingere i circuiti cerebrali a lavorare più duramente per mantenere una visione rosea del futuro.
Sembra quindi, almeno secondo questa ricerca, che nonostante si resti liberi di scegliere quanto essere positivi o negativi la natura ci abbia comunque fornito di una tendenza di base all'ottimismo.
L’ottimismo,quindi, è una caratteristica innata in tutti e che si potrebbe sviluppare al meglio con un pó di pratica.
Innanzitutto se è vero che non possiamo avere sempre il controllo su tutto ciò che ci circonda, possiamo però avere il controllo su di noi e sui nostri pensieri; in altre parole se il nostro cervello è portato ad essere ottimista sta a noi aiutarlo a continuare ad esserlo anche nei momenti che appaiono piú difficili o "scuri".
Ci sono alcune semplici regole da rispettare per mantenersi ottimisti:

- Concentrarsi su ciò che si vuole non su ciò che non si vorrebbe

- Concentrarsi su ciò che di buono si possiede già nella vita e quanto questo già di per sé sia fonte di soddisfazioni

- Dire sempre a se stessi: “Io posso”, “io sono in grado”, “io sono una persona positiva”.

- Durante la giornata, ripetere con convinzione ciò che si desidera e fare anche solo un piccolo passo per avvicinarsi di piú all'biettivo

- Cercare il lato positivo delle cose ( o almeno esercitarsi a farlo )

-Far seguire ai pensieri positivi delle azioni positive

- Pensate sempre al bicchiere mezzo pieno, mai a quello mezzo vuoto.

- Pensare che se anche non si è riusciti ad essere piú positivi "oggi" si potrà di nuovo provare ad esserlo "domani" (ossia: non trasformate il pensiero positivo in una condanna)

Certo, questi non sono che piccoli "trucchetti", non risolvono i problemi piú gravi, ma a volte possono essere utili per far tornare un pó di colore in una giornata troppo grigia.


sabato 23 febbraio 2013

Elezioni 2013: i fattori psicologici che influenzano il voto

Il voto è un nostro diritto tra i più importanti perchè ci permette di decidere, o almeno influenzare, l'andamento politico e quindi sociale e culturale del paese dove viviamo, e proprio per questo motivo sarebbe importante andare a votare con la maggiore consapevolezza possibile di ciò che si sta facendo.
Purtroppo l'attuale situazione politica poco invoglia a far valere la propria opinione tramite il voto e pare che anche per queste elezioni ci sia un forte rischio astensione provocata proprio dalla crescente delusione nei confronti della classe politica.
Va però precisato che la scelta di astenersi dal voto rientra all'interno di meccanismi psicologici legati comunque alla scelta che sono però basati su scelte "euristiche", intuitive e poco riflettute, lo stesso tipo di scelte che hanno portato alla situazione attuale perchè sono strategie decisionali che potremmo definire "brevi" e che vengono messe in atto quando si ha la consapevolezza che mancano importanti dati certi sulla realtà per fare delle valutazioni precise.
Ma perchè oggi ci troviamo a prendere decisioni anche rilevanti come quelle di voto in questa maniera così poco ponderata?
Il fatto è che gli elementi su cui ci si basava nel passato per decidere a chi dare il voto erano molto diversi; per esempio erano importanti le componenti ideologiche, la tradizione di voto,i valori e gli interessi delle classi sociali, delle famiglie e dei singoli elettori.
Oggi invece ci troviamo a vivere in una società sempre più fluida e basata sulle immagini e si viene quindi da queste maggiormente influenzati; il fatto è che la frequente astrattezza delle aspirazioni politiche manifestate in complessi dibattiti spesso comunemente incomprensibili o quantomeno generanti confusione e dati contrastanti portano sempre più ad affidarci all'immagine del singolo; l’attuale comportamento di voto, infatti, appare come un processo di scelta sempre più “personalizzata”, cioè mosso in modo crescente dalle caratteristiche individuali dei candidati e quindi dall'immagine che riescono a trasmettere agli elettori.
E' per questo motivo che i media ci portano sempre più dentro alla vita personale dei candidati, cosa che prima non era mai accaduta. La constatazione di ciò comporta che, dalla televisione ai giornali, viene giocata una campagna elettorale sempre più basata sulla possibilità di accattivarsi simpatie, di affascinare il popolo, di apparire più simili e vicini agli elettori o quantomeno alla loro immagine ideale. La tendenza degli elettori a lasciarsi guidare dagli aspetti di personalità ricavati attraverso pochi, spesso selezionati, momenti di comparse televisive è aggravata da una ulteriore propensione a giudicare i politici sulla base di semplificazioni cognitive ed emotive.
Una delle semplificazioni è appunto rappresentata dalle scelte "euristiche". Infatti per far fronte alla difficoltà crescente nel comprendere i programmi politici e alle incertezze rispetto alle promesse sfiduciate dai partiti opposti o dimostratesi inattendibili, vengano messi in atto comportamenti più intuitivi, guidati più spesso da impressioni emotive come simpatia e fiducia.
Questo accade anche perchè, come affermato da Caprara, per valutare i candidati noi non andiamo a guardare le reali capacità dimostrate in passato; un altro fattore che influenza l’espressione del voto è infatti la “propensione a non rischiare” che è guidata da una tendenza conservativa degli elettori che, rassicurati dalla conoscenza di alcuni punti certi, sono poco disponibili a mettere a rischio l’equilibrio ambito e spesso percepito come instabile. Per tali ragioni in ogni elezione esiste un vantaggio dei politici che concorrono per il rinnovo delle cariche piuttosto che di quelli che devono ancora farsi conoscere dagli elettori. Inoltre, sempre in base a questi studi, pare che tendiamo anche nella scelta elettorale a subire una sorta di effetto "recenza" ossia a ricordare meglio eventi accaduti o narrati di recente su cui viene consolidata la propria scelta di voto, malgrado i complessi intrecci della storia narrata durante un governo.
L'unico modo per poter effettuare delle valutazioni consapevoli è quindi quello di non farsi sfiduciare, non smettere di informarsi, effettuare confronti e sforzarsi il più possibile di essere realistici, e non cadere in questi meccanismi sopra esposti che anche i politici stessi conoscono molto bene.



domenica 27 gennaio 2013

Come stanno cambiando i sentimenti maschili (2): Competizione e paternità


La rivoluzione sessuale degli anni 60/70 ha inciso enormemente su quello che è il “gioco dei ruoli” tra uomini e donne, un “gioco” che è molto cambiato negli ultimi anni e non corrisponde più  con gli ideali “classici” dell’uomo che lavora e porta a casa lo stipendio mentre la donna resta ad occuparsi della famiglia e dei figli nel ruolo di “angelo del focolare”.
Oggi come risultato del famoso ’68 gli equilibri della coppia sono modificati e gli uomini stanno scoprendo dei nuovi sentimenti, quelli che erano tralasciati perché complementari alla donna e che ora anche gli uomini si trovano a vivere e quindi a dover comprendere. Uno di questi nuovi sentimenti è l’invidia per le donne, già affrontato nel precedentearticolo, un altro è la competizione con le donne, una vera e propria novità per le donne  e gli uomini della seconda metà del secolo, ormai, scorso.
Mai come oggi infatti i due sessi sono simili e nello stesso tempo in conflitto; in passato gli ambiti lavorativi, gli obiettivi, erano in ambiti differenti e distinti per sesso, per ruolo, basti pensare che esistevano dei veri e propri oggetti per donne e altri per uomini; prima degli anni ’50 nessuna donna avrebbe mai saputo portare un’automobile mentre nessun uomo avrebbe mai saputo utilizzare un ago da rammendo. Oggi gli obiettivi e gli interessi sono condivisi, tanto nell’ambito culturale quanto lavorativo ed economico, e portano competizione fra i due sessi. Ma la competizione, così come l’invidia, oltre ad esprimere un disagio ed una forma di conflitto relazionale tra uomini e donne implica anche una diversa visione dell’altro, percepito come persona che manifesta le stesse capacità e gli stessi diritti.
La competizione infatti implica il rispetto e la considerazione del proprio “avversario” che può diventare una possibilità di solidarietà non più basata sui bisogni ma sulla stima reciproca; questo è uno dei punti centrali del cambiamento, il passaggio dalla complementarietà uomo/donna, in cui l’uno aveva bisogno dell’altra e viceversa, alla similarità in cui entrambi hanno le stesse qualità. Ovviamente questo cambiamento manifesta sia elementi positivi che negativi; percepirsi simili ha sicuramente un grande valore, permette la stima reciproca e una possibilità di comprensione e compartecipazione fra i sessi mai vista precedentemente, ma contemporaneamente rischia di portare ad una vita solipsistica in cui non si ha mai bisogno dell’altro, che infatti spesso viene cercato solo per brevi momenti in cui si evade da una single-tudine da cui è quasi impossibile separarsi.
Un campo significativo in cui la competizione tra uomo e donna si è allargata è sicuramente quello della gestione dei bambini, che solo negli ultimi anni è stato stabilmente conquistato dagli uomini.
E qui si arriva ad un altro “nuovo sentimento” maschile, quello della paternità; ovviamente non che questo in passato fosse assente ma oggi la cosiddetta funzione paterna di cui si parla tanto si è parzialmente spogliata (a volte anche troppo) del cosiddetto “ruolo di capofamiglia” basato sull’obbligo di mantenere i figli e far rispettare loro le regole per allargarsi anche al mondo dei sentimenti, un mondo che permette ai nuovi padri una relazione più ravvicinata con i figli e più carica di affettività. Per esempio il rapporto padre-figli fa oggi meno riferimento a canali comunicativi razionali o verbali (come in passato quando i padri entravano in contatto con i figli quando erano già più grandicelli e capaci di comunicare con consapevolezza) per utilizzare la comunicazione corporea ed il gioco, ed è proprio per questo che oggi riescono a rapportarsi anche con i figli molto piccoli senza dover utilizzare l’intermediazione della madre.
Come già detto anche nell’ambito della paternità vige il nuovo principio di similarità e quindi l’uomo si rende più simile alla donna, infatti per accudire un bambino piccolo anche lui (come anche la donna) deve attivare la propria componente femminile materna; in altre parole significa che per occuparsi del bambino piccolo anche il padre deve risalire a quello che è stato il rapporto con sua madre e riattivare quelle capacità materne che quest’ultima ha lasciato latenti dentro di lui accudendolo da piccolissimo.
In questo modo il padre sviluppa quell’insieme di capacità empatiche, di sostegno, di accudimento e nutrimento non solo fisico ma anche affettivo che viene appunto chiamato “maternage”, uno stato in cui appunto tanto l’uomo quanto la donna si lasciano guidare dalla propria componente materna e dal comportamento del bambino stesso.
Ma a questo punto bisogna ricordare che un eccesso di similarità nasconde anche aspetti negativi; se infatti i padri per entrare in rapporto con i figli in modo più “affettivo”  devono entrare in contatto con la parte femminile questo non significa che debbano liberarsi della componente più specificamente maschile, anche perché questo si risolverebbe in un problema anche per la crescita dei figli.
La caratteristica della parte maschile infatti è quello di stabilire le differenze, e regole, e quindi anche le differenze di genere sessuale per esempio; infatti pare che il padre, a differenza della madre, è il componente della coppia genitoriale che tende a giocare differentemente con il figlio maschio rispetto alla femminuccia, trasmettendo al primo gli aspetti maschili e rafforzando nella seconda quelli femminili. Inoltre mentre le madri tendono a prediligere attività tranquille che stimolano l’attenzione nei bambini, i padri sono quelli che propongono attività maggiormente ricche di stimoli fisici e quindi più variate, manifestandosi come l’elemento ideale per traghettare i figli verso il mondo esterno, che è appunto ricco di stimoli, e quindi verso la crescita.

domenica 20 gennaio 2013

Quando i bambini hanno paura (1): le crisi dello sviluppo


La paura è una delle principali esperienze vissute dall’uomo, che lo aiutano a reagire ad eventi potenzialmente pericolosi e dolorosi, e come tale lo accompagna a partire dalla sua nascita. In questo senso i primi a vivere la paura sono proprio i bambini che vivono due tipi di paure: quelle legate ai compiti dello sviluppo (esempio la paura della separazione) e quelle cosiddette sociali (legate all’educazione impartita ).
La paura è un’emozione e come tale si dimostra utile all’uomo; ha una funzione di salvaguardia della sopravvivenza e rappresenta una preparazione psicologica per affrontare situazione pericolose. Le paura però richiedono anche di essere superate, affrontate con consapevolezza, altrimenti possono finire per schiacciare la vita, soffocarla; non per niente il termine angoscia, a volte associato alla paura, deriva dal latino “angustie” ossia “strettezza”.
Quindi nel momento in cui il bambino si confronta con la paura nel corso del suo sviluppo è anche costretto ad individuare strategie di superamento, imparando piano piano a confrontarsi con l’ignoto. In questo modo la paura resta ciò che dovrebbe essere, un naturale campanello d’allarme che permette di prevenire situazioni di pericolo o di dolore, senza per questo soffocare lo sviluppo.
Nel momento in cui, però, la paura assume dimensioni che impediscono una vita normale, perde il suo carattere di protezione diventando un ostacolo alla maturazione del bambino e mettendo a rischio lo svolgersi dei compiti quotidiani a cui è chiamato.
Ovviamente un mondo senza paure sarebbe solo una illusione quindi un’educazione che cerca di tenere lontane tutte le paure non aiuta affatto i bambini ad affrontare la vita; viceversa sarebbe importante che essi si confrontassero con le paure, perché così facendo possono crearsi lentamente la fiducia in se stessi e strutturare il proprio Io, ed è altrettanto importante che in questo processo di superamento possano contare  sull’appoggio dei genitori che hanno la funzione di “contenimento”, come se fossero una ideale “boa” che garantisce un appiglio sicuro in caso di difficoltà.
Le paure dei bambini possono essere legate tanto ad eventi traumatici quanto all’educazione ricevuta ma anche alle fasi che attraversano durante la loro crescita.
In quest’ultimo caso si può dire che la libertà di crescere, di cominciare qualcosa di nuovo, di andare incontro al mondo è sempre accompagnata dalla paura, che però è una paura stimolante, che rende costruttivi e creativi.
Le persone che non si confrontano con la libertà e con le paure rischiano di non poter diventare indipendenti, di non sviluppare l’autostima; scappando di fronte alla paura finisce per crearsi un circolo vizioso che è la paura di aver paura.
Lo sviluppo del bambino nei primi anni di vita è velocissimo, ad ogni passo si  aprono sempre più porte verso la vita, e con esse nuove paure; aprire queste porte richiede quindi un grande sforzo emotivo, uno sforzo che però il bambino è in genere più che disposto a correre visto che possiede una sorta di speciale sesto senso verso ciò che può aiutarlo a sviluppare la fiducia in se stesso.
Durante i primi 3 anni si manifestano 4 principali paure condizionate dalla crescita:
  1. Paura della perdita del contatto fisico, la forma primaria di paura; durante le prime settimane di vita il bambino riceve tutto ciò di cui ha bisogno dalla madre, vive in una specie di paradiso terrestre dove il cibo e la sicurezza sono infinitamente presenti ed in questa sorta di Eden si formano i presupposti per la fiducia primaria del bambino verso se stesso e verso le figure di riferimento e quindi la base emotiva sicura. Il bambino è quindi molto dipendente e nel momento in cui viene meno il contatto fisico con il “caregiver” si fanno strada le paure esistenziali che si trasformano in pianti e strilli che rappresentano per lui una vera e propria lotta per l’esistenza, questo in particolare nel momento in cui oltre alla distanza fisica si manifestano i bisogni, per esempio la fame; in questi casi è importantissimo che ci sia innanzitutto la rassicurazione ed il sostegno dei genitori tramite il contatto fisico, l’abbraccio, e poi a seguire, il soddisfacimento del bisogno specifico che viene dimostrato dal neonato.
  2. Paura dell’estraneo, intorno all’ottavo mese; a questa età il bambino ha appena iniziato a distinguere tra persone familiari e non e di conseguenza non è più disposto a farsi abbracciare da chiunque; si intimidisce quando un estraneo si avvicina troppo fisicamente, se da un lato ne è attratto come è sempre attratto dal nuovo, dall’altro il nuovo può apparirgli inquietante. Se l’altro non si avvicina allora il bimbo inizia le sue strategie di avvicinamento, sorride, cerca il contatto visivo e pian piano si avvicina con la scusa di giocare fino ad accettare il contatto fisico. In questi casi per evitare che si sviluppi una paura troppo forte è importante non costringere il bambino ad avvicinare l’estraneo ma aspettare e rispettare i suoi tempi.
  3. Paura della separazione, intorno al secondo anno; a questa età il bambino inizia ad avventurarsi verso nuovi territori ed in questa fase si vede in azione la sicurezza acquisita nel periodo precedente. Le paure di separazione accompagnano il bambino per tutta la durata dello sviluppo, e continuano ad agire anche nell’adulto, nella loro forma precoce si manifestano nel momento in cui il bambino può muoversi con maggiore autonomina, appunto dopo il primo anno, quando inizia a gattonare e poi a camminare stabilendo quindi le modalità di allontanamento fisico ed autonomo dalle figure di attaccamento. Questa nuova autonomia è però ancora fragile e va accompagnata, soprattutto perché facilmente minacciata da regressioni; allora è molto importante mostrare fiducia nel bambino e nelle sue capacità, lasciandogli lo spazio per fare esperienza del mondo ma contemporaneamente essendo disposti a riaccoglierlo quando dimostra di avere ancora bisogno di rassicurazione da parte dei genitori.
  4. Paura dell’annientamento, intorno al terzo anno; questo è anche il periodo della fase dell’opposizione, durante il quale i bambini sviluppano il senso di potere e di forza, fino a rasentare l’onnipotenza; parallelamente a tutto questo avviene l’educazione alla pulizia e il bambino sviluppa un  senso di controllo sul proprio corpo ma anche sugli altri (per esempio sui genitori che attendono ansiosamente che faccia i suoi bisognini). Contemporaneamente al controllo ed al potere c’è però anche un forte senso di impotenza, che si manifesta in particolare di notte, con la paura dei mostri e degli incubi, ma anche delle forze della natura. A questa età per gestire le paure i bambini iniziano ad affrontarle nel gioco o con piccoli rituali; è quindi importante essere il più sensibili possibile alle piccole ossessioni, in particolare quelle per andare a dormire, come la lucina accesa, oppure ai giochi con i mostri o a quelli aggressivi che se da un lato non vanno esasperati dall’altro sono necessari per dare forma alla paura ed affrontarla.
Queste sono tutte paure naturali legate allo sviluppo ed alle sue fasi, non è quindi auspicabile impedire al bambino di provarle ma come già detto è importante che i genitori gli siano vicini e lo aiutino a trovare le sue personali risposte e soluzioni perché solo così facendo il bambino può mettere le basi per la fiducia in se stesso.