sabato 19 novembre 2011

La crisi e i suoi (psico) derivati

È di ieri la notizia di uno studio svolto da Confesercenti sulle aspettative degli italiani riguardo alla crisi economica. Secondo questa indagine siamo sempre più pessimisti ed il 96% degli intervistati pensa che il peggio debba ancora venire. Corollario della crisi è l’aumento dei disturbi psicologici, in particolari quelli depressivi e d’ansia, legati a demotivazione, disistima e perdita di identità. Ma ci sono anche dei fattori protettivi rispetto a questi disturbi e sono legati al senso di efficacia personale e, soprattutto, dalla presenza della rete sociale.

La situazione economica mondiale ed europea in particolare sta raggiungendo picchi sempre più gravi, crollo delle borse, disoccupazione, licenziamenti, mancanza di soldi per arrivare a fine mese sono sempre più diventati i nostri “diavoli” personali; e, peggio ancora, di questa crisi non se ne riesce a vedere la fine.
Secondo la Confesercenti gli italiani Sono sempre più pessimisti. Ritengono che la crisi economica non stia affatto terminando, sono sempre più preoccupati per il futuro del mercato del lavoro, sono sempre più allarmati per le prospettive della propria situazione familiare, e stanno perdendo la speranza. Ancor più significativo il fatto che i più preoccupati siano, oltre alle persone vicine al pensionamento che guardano con timore alla possibile riscrittura del sistema previdenziale, proprio i giovani e gli studenti.
Da giugno a oggi, è aumentata dal dal 57% al 71% la quota di italiani assolutamente convinta che il peggio non sia passato, mentre sale dal 27% al 42% la percentuale di persone preoccupata per il futuro del suo stesso posto di lavoro
Il vissuto di incertezza per il futuro, la paura della perdita del lavoro, la recessione danno il via all’ansia, alle preoccupazioni ossessive per il lavoro; ad essere colpiti da questo stato d’animo non sono solo le persone che il lavoro lo hanno perso ma anche i loro colleghi che sono riusciti a mantenerlo.

Nel primo caso quello che viene perso è il proprio senso di identità; uno dei principali elementi che lo costituisce è infatti rappresentato dal lavoro, dalla propria capacità produttiva, la forza sufficiente per mantenere magari i propri familiari; il venire a mancare di un’occupazione vuol dire non avere più un ruolo sociale, la capacità di sostentare se stessi e magari la propria famiglia. Ognuno di noi però è proprio sui ruoli sociali che sviluppa la rappresentazione di sé e la sicurezza che gli consente una corretta integrazione sociale; la perdita di lavoro incide quindi tanto sul ruolo sociale quanto sull’autostima. Venuta a mancare l’occupazione si rischia quindi di precipitare in una spirale depressiva, la depressione infatti si sviluppa sulla base del senso di perdita, in questo caso la perdita del lavoro equivale a perdere una considerevole parte di sé che lascia un vuoto nella persona.
Non per niente sono aumentati negli ultimi anni i suicidi causati dall’improvvisa disoccupazione, alla loro base spesso c’è uno stato depressivo che non è stato tenuto in considerazione.

La situazione non è necessariamente migliore per chi un lavoro ce l’ha ancora; anche se meno grave l’attuale situazione lavora ai fianchi fino a portare allo sfinimento e sull’incertezza, sulla mancanza di prospettive attecchisce l’ansia. La paura del licenziamento, di perdere tutto ciò che si è costruito per una vita, crea delle vere e proprie ossessioni. L’ansia infatti è una reazione naturale di fronte all’incertezza ed alla paura, una specie di segnale di allerta; per chi ancora ha un lavoro è come vivere perennemente con una spia di pericolo rossa e lampeggiante dentro la propria testa.
In base allo studio citato gli italiani hanno una visione del futuro sempre più fosca, ormai pochissimi pensano che la situazione migliorerà nel breve periodo, ancora peggiore è il fatto che la percentuale dei pessimisti sia aumentata in pochi mesi, vuol dire che il senso di disillusione e delusione è sempre maggiore.  Crolli improvvisi delle convinzioni positive sono terreno fertile per la depressione e la demotivazione.
In effetti è proprio il circuito motivazionale che finisce per spezzarsi; noi ci sentiamo motivati a svolgere una certa azione perché agiamo sull’onda di tre fattori principali: un fattore emotivo che ci porta a desiderare qualcosa, un fattore cognitivo che riguarda le aspettative di successo nel raggiungere questo qualcosa, un fattore volitivo che è rappresentato dalle azioni concrete che svolgiamo per raggiungere il nostro obiettivo.
Tanto la depressione quanto l’ansia finiscono per inceppare questo circuito bloccandolo; l’abbattimento emotivo agisce sul primo fattore mentre l’ansia sul secondo, sulle aspettative di successo. Questo vuol significare che l’attuale vissuto di incertezza blocca il desiderio, la voglia di agire, persino la voglia di cominciare qualunque cosa; è una forma di difesa dalla delusione.
Si può provare a difendersi diversamente, per esempio buttandosi in nuove imprese in modo maniacale, ma questa non è che una negazione del problema; è della scorsa settimana un articolo sul Resto del Carlino che parlava proprio di questo, del fatto che come reazione psicologica alla crisi molte persone decidono di buttarsi troppo velocemente in attività che non sono state ben pianificate e questo è un sicuro indicatore di insuccesso.

Difendersi dalla crisi deprimendosi o negandola non sono i modi migliori per risolvere la situazione.

Come sempre in questi casi il fattore tempo è importante, non si può agire sull’onda della fretta.
Il primo fattore protettivo dai vissuti depressivi maniacali o ansiosi è la ristrutturazione delle aspettative; diventa cioè necessario non puntare troppo nettamente sull’obiettivo finale ma concentrarsi sui cosiddetti sotto-obiettivi; più semplicemente, piuttosto che concentrarsi su una promozione di questi tempi potrebbe essere meglio riuscire ad accontentarsi di un piccolo aumento.
Un secondo fattore potrebbe essere il tentativo di sviluppare delle azioni creative; per esempio trovarsi degli interessi e cominciare a coltivarli, questo aiuta a sentirsi meglio con se stessi ed a concentrare l’attenzione maggiormente sulle proprie capacità. Un ulteriore vantaggio dello sviluppare la creatività è che così facendo si entra in rapporto con se stessi in maniera più profonda e ci si può sentire più soddisfatti, aiuta a capire che se il mondo è un po’ più buio e persecutorio ci si può prendere cura di sé in prima persona.
Un terzo fattore, più importante degli altri è legato alla possibilità di mantenere una rete sociale funzionante. La rete delle relazioni rappresenta la palestra dove si impara ad avere fiducia in sé e negli altri, dove si impara a non rimanere soli di fronte alle difficoltà. Rompere questa rete significa ridurre la possibilità di reagire positivamente e creativamente alle crisi.
Avere una rete sociale intorno, vuoi la famiglia, vuoi gli amici, vuoi un gruppo di riferimento, è uno degli aspetti psicologici che concorrono alla formazione di quella capacità di reagire positivamente ai cambiamenti e di trasformarli in opportunità; in termini tecnici si parla di “resilienza” oppure di “efficacia personale” che però sono appunto delle competenze che non possono svilupparsi al di fuori di una rete di relazioni  significative e solide.
Le persone con cui abbiamo rapporti di alto valore affettivo sono quelle che meglio di chiunque altro possono non soltanto sostenerci nelle difficoltà, anche in senso pratico, ma sono soprattutto quelle che ci ricordano in continuazione che abbiamo un valore che travalica il ruolo sociale o la produttività, il valore dell’esserci.

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